Nel VI regio della città di Pompei è possibile visitare nei pressi delle Terme Centrali e di quelle Stabiane, la casa di un ricco cittadino imprenditore: Podius Priscus, titolare del panificio di Pompei. È probabile che egli avesse interessi in un’officina gestita da un suo liberto infatti, fra la casa e la bottega si apre una porta che conduce ad un panificio, sprovvisto però di un negozio vero e proprio, probabilmente perché Podius si affidava a venditori ambulanti, o perché vendeva il pane all’ingrosso. Dei venditori ambulanti si è certa dell’esistenza poiché nel recinto del tempio di Apollo un graffito recita che “venditori di focacce sacrificali hanno qui il loro posto fisso”.
Il pane nell’Antichità
Per i Greci il pane era un alimento di base della dieta quotidiana, pare che esistessero addirittura settanta tipi diversi che erano capaci di produrre, tra cui la maza di orzo impastato (una focaccia molto diffusa citata dal poeta Archiloco), nonché il pane di frumento che, stando a quanto detto da Solone, doveva essere consumato solo nei giorni di festa. Uguale importanza ebbe questo alimento nell’Antica Roma, dove sicuramente costituiva la base dell’alimentazione soprattutto per le classi meno abbienti; l’espressione ormai divenuta popolare vuole appunto panem et circenses.
Nell’immaginario comune del mercato romano insieme al vino e all’olio non manca mai il pane: ebbene, bisogna nondimeno ricordare che solamente dal II secolo a.C. divenne uso comune nutrirsi di questo alimento. Prima la farina veniva usata per preparare esclusivamente la puls, cioè una pappa, o una densa zuppa di cereali in cui si metteva di tutto, dai grani di cereali selvatici ai legumi sino ai pezzi di carne se disponibili; è infine probabile che la prima focaccia sia stata un fondo di polta essiccata e arrostita.
L’installazione di primi impianti di panificazione viene collocata nei primi decenni del II sec. a.C., come ci tramanda sempre Plinio, che farebbe risalire al 171 a.C. (anno d’inizio della Guerra contro Perseo) la nascita dell’industria della panetteria. Questa attività, inizialmente poco considerata e svolta soprattutto da liberti o cittadini di umili condizioni, ottenne successivamente privilegi e immunità, finendo con la costituzione del collegium pistorum.
La macinatura del grano era inizialmente una mansione tipicamente delegata alle massaie, in seguito compito affidato ai garzoni dei fornai chiamati pistores, nome derivante da pinsere, cioè macinare, soltanto quando si crearono vere e proprie attività redditizie. L’ambiente dove si svolgeva il lavoro era sempre legato alla casa, ma se prima come visto era considerata attività umile, con il passare del tempo avere una propria officina (pistores) come nel nostro caso pompeiano, era sinonimo di agiatezza e ricchezza.

Il panificio di Pompei
Nella nostra officina, non dissimile a quelle ritrovate a Roma, sono state rinvenute ben quattro macine disposte in fila, numero adeguato e nella media se si contano tutte le macine ritrovate in altri panifici collocati uniformemente nei quartieri e facilmente raggiungibili per chi li riforniva di materie prime.
Il forno era dotato di una volta conica in opus caementicium, ricoperto di calce e cocci di ceramica. Era dotato di uno sfiatatoio in alto per far uscire i fumi tossici creati dalla cottura del pane e nello stesso tempo animare la fiamma con l’ingresso di ossigeno. La parte frontale aveva un arco in laterizio con la parte sottostante aperta, per inserire le pagnotte e regolare la fiamma alimentata con legna. A fianco vi era la base per un recipiente, forse dell’acqua da spargere sull’impasto semicotto.
Uno strato di sabbia sotto il forno e sulla sommità della calotta serviva per isolare la camera di combustione e non disperdere prezioso calore. Uno sportello di ferro chiudeva il complesso. L’ambiente di sinistra poteva essere usato come deposito del pane, mentre accanto forse c’era il granaio. Di granai a Pompei non se ne sono ancora trovati, parrebbe plausibile pensare che il grano fosse conservato nelle ville di campagna e portato ai fornai dai saccarii, cioè dei facchini privati attivi però in politica. Il grano era contenuto in poche giare (dolia), oppure in sacchetti o direttamente sciolto.
Nel forno di Modestus, dietro allo sportello chiuso, si sono rinvenuti ottantuno pani carbonizzati, tutti rotondi e suddivisi in otto sezioni. Nell’Antiquarium di Pompei è conservato un fornetto portatile in terracotta (klibanos) per fare un pane più fine, questo sicuramente di migliore qualità rispetto a quello che andava in pasto ai servi, realizzato come testimonia un graffito con il residuo di siligo (fior di farina).

Gli strumenti da lavoro
Al panificio di Pompei le macine e mortai erano costituiti da un elemento di lava cavo rotante, a forma di clessidra, nel quale si incuneava un blocco conico inferiore (meta) fisso a terra. Il grano veniva versato nella cavità superiore e passava nella parte inferiore mentre veniva molinato dal catillus, che ruotava grazie alla spinta di uomini o di un asino.
In città si usavano gli asini perché costavano meno degli uomini e rendevano molto di più. Il tipo di pietra utilizzata era quella lavica, molto resistente all’usura seppur porosa, inoltre non inquinava la farina con frammenti che potevano rompersi e danneggiare conseguentemente i denti. Prima della macinatura vi erano però diversi passaggi di preparazione del grano: una prima fase di umidificazione del grano avveniva tramite acqua salata, dopo si passava alla macinatura e all’impasto con sale, acqua e lievito, quest’ultimo se previsto dalla ricetta.
L’impasto poteva essere lavorato con l’ausilio di una macchina impastatrice anch’essa di materiale lavico, e aveva sul fondo di un bacile un’asse di legno verticale a cui si aggiungevano orizzontalmente delle braccia anch’esse in legno. Questo asse centrale veniva azionato tramite la spinta di un animale o tramite la forza di un uomo. Una volta creata la pagnotta veniva posta in ambiente caldo-umido, di solito in prossimità e collegata alla sala del forno, per farlo lievitare.
Il tempo degli antichi era fortemente scandito dalle festività, per cui non stupisce che ci fossero giornate dedicate alla sfera del pane. I Fornacalia erano le festività dedicate ai forni e alla loro divinità protettrice: Fornax. Le celebrazioni si svolgevano dal 7 al 17 febbraio, quando la dea veniva libata con la mola salsa, fatta con chicchi di farro cotto e lavorati in un mortaio.
Non è poi strano trovare nei panifici il simbolo apotropaico del fallo in rilievo con scritte dedicatorie come ad esempio “è qui, che abita la felicità”. Il fallo è simbolo del Fascino, e quindi usato contro il malocchio, si collegava altresì alla forza generatrice della natura, personificata dal pane stesso.
