Carlo d’Angiò, primo sovrano della dinastia che regnò sul sud Italia dal 1266 al 1442, è conosciuto come colui che sconfisse gli ultimi Svevi e che governò in maniera tirannica il Regno di Sicilia. La sua figura ha spesso subito giudizi o molto negativi o eccessivamente benevoli. Ma, al di là dei luoghi comuni, chi era in realtà Carlo? Mettendo da parte la figura politica e istituzionale, scopriamo insieme alcuni aspetti meno noti, ma più umani e personali, del sovrano angioino.
“Questo Carlo fu savio, di sano consiglio, e prode in arme, e aspro, e molto temuto e ridottato da tutti i re del mondo, magnanimo e d’alti intendimenti, in fare ogni grande impresa sicuro, in ogni aversità fermo e veritiere d’ogni sua promessa, poco parlante, e molto adoperante, e quasi non ridea se non poco, onesto com’uno religioso, e cattolico; aspro in giustizia […] grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso, e parea bene maestà reale più che altro signore; molto vegghiava e poco dormiva, e usava di dire che, dormendo, tanto tempo si perdea.”
(Giovanni Villani – Nuova Cronica)
Così viene descritto Carlo I d’Angiò da Giovanni Villani nella sua Cronica e, tutto sommato, le sue parole sembrano descrivere perfettamente il solenne ma realistico volto scolpito da Arnolfo di Cambio nella celeberrima statua del Palazzo dei Conservatori a Roma. A voler dar retta a questa descrizione, Carlo doveva essere un uomo robusto, di pelle scura e alto di statura, forse non proprio avvenente nei lineamenti del viso. Il carattere? il Villani lo descrive, da adulto, come un uomo savio, abile condottiero e molto pio. Infatti la storia ci restituisce il ritratto di un uomo riservato, religioso si, ma non fanatico, a tratti duro, secondo alcuni dispotico ma con un alto senso dell’onore. Da piccolo doveva essere stato un vero enfant terrible, un regale ribelle che ebbe non pochi rimproveri dalla madre Bianca e dal fratello maggiore Luigi IX, re di Francia.

L’infanzia e la giovinezza di Carlo
Carlo nacque nel 1226 alla corte di Parigi, figlio del re capetingio Luigi VIII e Bianca di Castiglia. Inizialmente fu battezzato con il nome di Stefano, ma in seguito si preferì chiamarlo col nome di Carlo, in omaggio alla pretesa discendenza familiare dalla stirpe dei carolingi. Ultimo di sette figli, era stato destinato alla carriera ecclesiastica come tutti i figli cadetti, tuttavia la morte prematura dei due suoi fratelli maggiori Giovanni e Filippo Dagoberto, sconvolse i piani di famiglia e si dovette rivedere tutto l’assetto ereditario.
Ci si assicurò, quindi, che il rampollo ricevesse un’educazione degna del suo rango e si decise che gli sarebbero state assegnate le contee d’Angiò e del Maine. Abbiamo poche notizie sulla sua infanzia, ma sappiamo che dopo la prematura morte del padre Carlo restò con la madre fino ai dieci anni, subendo l’influenza dell’energica figura di Bianca. Nel 1237 troviamo Carlo, oramai undicenne, presso il fratello Roberto d’Artois che, a differenza del più severo Luigi IX, doveva avere un debole per il giovane Carlo tanto che sostenne, per quanto possibile, i suoi desideri e la sua formazione. Infatti, un paio d’anni dopo il suo arrivo alla Corte d’Artois, Carlo già possedeva quanto competeva, a quei tempi, ad un petit prince: un destriero da battaglia, servitù personale, un precettore, un maresciallo, persino un chierico personale come guida spirituale.

L’educazione cavalleresca
Presso il fratello Luigi IX ricevette invece il suo battesimo delle armi a sedici anni quando non era ancora un cavaliere, ma semplicemente valletto partecipando ad una spedizione militare contro il conte de La Marche. Dopo la sua prima esperienza in armi, la famiglia iniziò a programmare il suo futuro matrimoniale, che gli permise di gettare le basi della sua futura potenza in Europa. A diciotto anni venne promesso come sposo all’ambitissima Beatrice, contessa di Provenza e Folcalquier, dama di antica aristocrazia ed erede di terre prestigiose. Alla morte del padre, i numerosi pretendenti fecero carte false per ottenere la mano della fanciulla. In testa a tutti Giacomo I d’Aragona, il quale arrivò ad assediare la donna nel suo stesso castello.
Carlo, con un’impresa degna di una Chanson de Geste, riesce a sconfiggere gli assedianti e liberare Beatrice, sposandola nel 1246. Il matrimonio a quanto pare fu anche felice e coronato da vero amore, cosa rara in un mondo dove le unioni matrimoniali non avevano necessariamente valore affettivo ma erano dettate da ragioni politiche d’alleanza o di trasmissione ereditaria di titoli e possedimenti. Quello stesso anno, nel giorno di Pentecoste, Carlo fu ordinato cavaliere nella Cattedrale di Melun e, nell’agosto successivo, Luigi IX lo investì dei feudi ereditari dell’Angiò e del Maine con la consegna del suo nuovo stemma araldico: gigli d’oro in campo blu. Nella famiglia capetingia la solennità di Pentecoste era il giorno deputato alle investiture cavalleresche, in quanto il Dono dello Spirito Santo, faceva del cristiano un vero combattente di Cristo. In quanto alle virtù cavalleresche e militari i contemporanei di Carlo non mancarono mai di esaltarle, descrivendolo come “il fiore” della cavalleria, principe nobile e valoroso.

Carlo e la cultura del suo tempo
In Francia, Carlo ricevette un’educazione votata ai valori tipici delle corti medievali, incentrata su guerre e tornei, ma anche sull’amore per il canto e la poesia, nel quale dominava l’ideale dell’amore cortese: un’educazione cavalleresca e letteraria che lo rese, se non proprio un intellettuale, sicuramente un attento cultore delle belle lettere, che lo portò a svolgere un notevole ruolo nella cultura del tempo. Amava leggere poesie e ne compose egli stesso; infatti, quando era ancora solo conte d’Anjou, compose e musicò due canzoni, “Trop est destroiz qui est desconfortez” e “Li granz desirs et la douce pensée”, tramandateci dai canzonieri del Duecento e i suoi componimenti ebbero un discreto successo negli ambienti più raffinati.
I suoi rapporti con i trovatori, assidui quando era ancora solo un principe, continuarono ad essere intensi anche una volta salito sul trono di Sicilia, al punto che la sua corte divenne un punto di riferimento per tutta l’Europa. Sappiamo che, dopo la conquista del regno di Sicilia, acquistò e fece ordinare la realizzazione di diversi manoscritti, allestendo una grande biblioteca in Castel dell’Ovo a Napoli. Si impegnò, inoltre, nel cercare di risollevare le sorti dell’Università di Napoli, fortemente decaduta dopo la morte del suo fondatore Federico II.

Un re bibliofilo
L’acquisto e l’allestimento di codici, molti dei quali miniati, sembra essere una delle occupazioni costanti di Carlo una volta insediatosi a Napoli. Grazie alla trascrizione dei documenti della cancelleria angioina[1] possiamo ricavare preziose informazioni riguardo i codici allestiti a Napoli in quel periodo. Da questi documenti sappiamo che Carlo dedicò grande attenzione al lavoro di traduttori, amanuensi e miniatori al suo servizio, facendo registrare meticolosamente le spese per i libri, la fornitura di carte edinis o thauratinis e i compensi per la decorazione dei codici. Nella sua biblioteca a Castel dell’Ovo erano custoditi, insieme col tesoro regio, numerosi codici di diritto e codici liturgici (messali, antifonari, graduali e lezionari) fatti arrivare dalla Francia e il cui stile d’oltralpe influenzò molto la produzione miniatoria napoletana.
Carlo, inoltre, riuscì ad impossessarsi di alcuni codici appartenuti a Federico II e Manfredi, come il De materia medica (ora a Vienna) ma anche altri codici non identificati ma testimoniati da una lettera inviata a Carlo da un mercante milanese, Bottatius, nella quale questi offre al re un prezioso codice appartenuto all’imperatore Svevo. Molti i volumi riferibili al filone letterario cavalleresco, particolarmente diffuso in Francia, presenti nella biblioteca di Carlo a Napoli, a cominciare dai grandi poemi del XII secolo che narravano le storie del ciclo bretone o gli eroi dell’antichità come Alessandro Magno e Enea, fino alla storia della Creazione del mondo, come nel caso dell’Histoire ancienne jusqu’à César, uno dei codici più antichi trascritti e fatti illustrare da Carlo.

Note al testo
[1] Documenti irrimediabilmente distrutti nel 1943, insieme con l’intero patrimonio delle carte angioine e aragonesi dell’archivio di stato di Napoli, e che conosciamo grazie alle preziose trascrizioni fatte alla fine dell’Ottocento e nel primo trentennio del secolo successivo da Camillo Minieri Riccio, Nicola Barone, Sergio Terlizzi e, per quelli in francese, da Alain De Bouard.