Si sente tanto parlare dell’Archeologia Sperimentale, ma di fatto sappiamo davvero di cosa si tratta? Per inquadrare la materia, occorre prima fare alcune doverose premesse.
Durante una visita al museo, i nostri occhi incrociano continuamente una miriade di reperti archeologici. Nel frattempo, ricerchiamo quelle caratteristiche familiari per comprendere il loro utilizzo e la loro funzione. La nostra mente si chiede come sia possibile che, popoli così lontani dal nostro presente, abbiano potuto realizzare oggetti simili alla nostra quotidianità. Ragionamenti e idee che provengono dalla natura stessa del reperto archeologico, un manufatto prodotto dalle mani sapienti dei nostri antenati, attraverso un susseguirsi di azioni e gesti. Un oggetto quindi, antico o moderno che sia, è sempre il risultato di un doppio lavoro da parte dell’uomo: mentale (il gesto) e manuale (l’azione). Quello che cambia è l’ambiente culturale e fisico nel quale è stato realizzato.
Non esiste idea, teoria o creazione che non sia influenzata dalla cultura di appartenenza. Se pensiamo banalmente al gesto che indica l’utilizzo del telefono, tutti imitiamo la forma della cornetta, alzando contemporaneamente il pollice e il mignolo. Un gesto utilizzato dai bambini solo perché trasmesso dagli adulti; gli attuali telefoni infatti hanno forma completamente piatta. Ma se questa trasmissione di informazioni fosse interrotta, i bambini del futuro imiterebbero il gesto del telefono aprendo completamente la mano e unendo le dita. Questo esempio ci fa comprendere non solo che il gesto è una rappresentazione mentale di un’azione fisica, ma anche, che conserva la memoria sociale della cultura di appartenenza. Adesso, il reperto archeologico che ritroviamo nelle stanze dei musei non ci appare più un semplice manufatto da confrontare con la nostra quotidianità, ma un prodotto della cultura umana. Studiare i reperti archeologici ci offre quindi la possibilità di conoscere le culture più antiche che hanno popolato il nostro pianeta.
La centralità dello studio dei manufatti nelle ricerche archeologiche venne intuita negli anni ’50 dall’Archeologo australiano Gordon Childe e ripresa nel corso degli anni ’60 dall’Archeologia Processuale (o New Archaeology). Lewis Binford, massimo esponente della New Archaeology, propose uno studio dei reperti archeologici basato da un lato, sui principi del metodo sperimentale, dall’altro, sull’osservazione diretta dei popoli che attualmente vivono in maniera tradizionale. L’utilizzo di una tecnologia non meccanizzata da parte di gruppi umani moderni che vivono di caccia e raccolta, poteva essere un ottimo mezzo per generare (con tutte le limitazioni del caso) possibili analogie con società ormai estinte. L’osservazione diretta di popoli tradizionali e il rigore scientifico del metodo sperimentale sono alla base dell’archeologia sperimentale.
L’archeologia sperimentale è un metodo di ricerca utile per la ricostruzione degli oggetti e della gestualità del passato. Attraverso la replica in laboratorio dei manufatti antichi, con l’utilizzo di strumenti da lavoro e supporti il più possibile affini al contesto archeologico di riferimento, è possibile comprendere la catena operativa utilizzata dai nostri antenati per la loro realizzazione. Replica che viene eseguita attraverso un protocollo sperimentale, vale a dire, l’applicazione di una serie di procedure, replicabili ovunque e da chiunque, in modo che il risultato sia verificabile in qualsiasi contesto garantendo la scientificità di tutto il processo. Il replicare l’oggetto pone il ricercatore in contatto diretto con le difficoltà e le possibili procedure adottate dai nostri antenati grazie all’utilizzo di strumenti e supporti affini.
Questo metodo non solo permette di conoscere il modo in cui è stato realizzato l’artefatto, ma anche frammenti di culture passate tramite la replica di gesti e azioni.