Nel corso della sua plurisecolare storia l’esercito romano arrivò a confrontarsi con una straordinaria varietà di nemici, diversi per armamenti, per tattiche e cultura. Alcuni di questi nemici rimasero così impressi nella memoria collettiva dei Romani che le fonti latine, anche a distanza di secoli, riportarono le peculiari caratteristiche militari che avevano alcune popolazioni.
Dalla tenacia della fanteria iberica e celtibera, passando per la rapidità e sfuggevolezza dei cavalieri del deserto numidi fino ad arrivare al coraggio e alla forza bruta dei Germani e alla carica feroce dei catafratti parti, Roma dovette continuamente adattare le proprie legioni per sopravvivere ad una pluralità di minacce eterogenee.
Se tale risposta fu in parte tattico/strategica, non si può mancare di osservare che Roma si premurò anche di assimilare e far propri i punti di forza degli avversari.
In alcune circostanze ciò poteva portare all’adozione delle armi del nemico, come nel celebre caso del gladius iberico, ma in altre lo stato romano trovò più conveniente reclutare direttamente i soldati dalle popolazioni locali oppure farseli alleati per le proprie operazioni militari.
Le fonti, come Livio o Dionigi d’Alicarnasso, attestano fin dall’antichità monarchica il ricorso a truppe alleate dei socii, per raddoppiare la consistenza numerica delle legioni romane consolari. Tuttavia, in una prima fase, si può presumere che tali truppe fossero similari a quelle capitoline, per armamento e interpretazione tattica. Con il graduale assoggettamento dell’Italia i Romani poterono aver a disposizione un immenso bacino di arruolamento. Polibio (II, 24) ci fornisce un elenco estremamente dettagliato delle forze romane disponibili nel 226 a.C (pochi anni prima della guerra annibalica): oltre ai propri cittadini Roma avrebbe potuto reclutare 54000 uomini tra Etruschi e Sabini, 20000 tra Umbri e Sarsinati, 20000 Galli Veneti e Cenomani, 77000 Sanniti (7000 dei quali cavalieri), 85000 Latini (5000 cavalieri), 66000 Iapigi e Messenapi (16000 a cavallo), 33000 Lucani (3000 equiti) ed infine 24000 tra Frentani, Vestini, Marsi e Marrucini. L’aspetto interessante di tale lista è rappresentato dal fatto che i cavalieri costituissero circa il 10% delle forze alleate, una proporzione nettamente superiore a quelle delle legioni romane, dove gli equites rappresentavano solo il 6% delle forze totali.
Se Roma dunque basava le sue tattiche e la sua interpretazione bellica sulla fanteria pesante erano soprattutto gli altri popoli alleati a ricoprire ruoli diversi sul campo di battaglia, agendo come fanteria leggera e cavalleria.
Questo dato andò rafforzandosi con l’espansione romana nel Mediterraneo. Soprattutto durante la seconda guerra punica i Romani entrarono in contatto con nemici completamente diversi: i cavalieri numidi. Questi specialisti del deserto erano privi di armature, senza nemmeno l’ausilio di briglie per controllare il cavallo, servendosi solo di rudimentali corde intorno al collo dell’animale. Armati con piccoli scudi di pelle e lance leggere questi cavalieri furono la chiave del successo di Annibale nella sua campagna d’Italia. Il senato di Roma e la famiglia degli Scipioni tentò a lungo di stabilire contatti diplomatici con il regno di Numidia, in delicate trattative, sia in Africa che in Iberia, finché Scipione l’Africano non decise di supportare la pretesa al trono di Massinissa. Schierati sul campo di battaglia a fianco dei Romani, nel 202 a.C. i Numidi furono decisivi nell’infliggere il colpo decisivo ai veterani d’Italia di Annibale.
Da quel momento i Romani fecero ricorso sempre più massiccio ad unità specialistiche, soprattutto di cavalleria, per i propri eserciti. I cavalieri leggeri numidi erano ancora utilizzati in piena epoca imperiale, come si evince da una scena (LXIV) ancora oggi visibile sulla Colonna Traiana, che li ritrae durante la conquista della Dacia.
Il luogo di provenienza delle reclute era, in età imperiale, spesso indicato dal nome dell’ala di cavalleria. Ad esempio, l’ala Gallorum et Thracum, fondata nel 21 d.C., indica nel nome la provenienza gallica delle prime truppe, poi integrate da contingenti traci. Era infatti una prassi consolidata che le alae continuassero a reclutare soldati, in sostituzione di congedati e perdite, sul luogo del servizio e non nel territorio di origine della formazione. Ciò ovviamente favoriva anche il cambiamento delle caratteristiche degli squadroni, rendendoli più adatti al tipo di territorio in cui prestavano servizio.
Anche l’armamento degli ausiliari poteva cambiare notevolmente: in seguito al confronto, riportato da Tacito, con i cataphractarii nella zona danubiana, i Romani iniziarono a reclutare i Sarmati, per formare una nuova cavalleria pesante completamente rivestita di un’armatura fatta di ferro, o di cuoio estremamente spesso, e armata con una lancia di oltre tre metri e mezzo da impugnare con due mani, ideale per le cariche contro la fanteria, leggera e pesante. Per favorire il reclutamento di questi guerrieri Roma concesse ai Sarmati di insediarsi nelle Gallie e in Pannonia, provvedendo a formare in seguito squadroni specializzati chiamati alae cataphractariae. Un’altra formazione di cavalleria pesante nel periodo tardoantico fu invece rappresentata dai clibanarii. Rivestiti integralmente da lamine di ferro sovrapposte e cotte di maglia ed armati di una lancia pesante, questi cavalieri furono reclutati per la prima volta sotto Costanzo II.
Infine, fin dai tempi della Battaglia di Carre nel 53 a.C., Roma aveva constatato l’efficacia di un nuovo genere di soldato: l’arciere a cavallo. Queste unità erano in grado di bersagliare il nemico mantenendosi in movimento, come scoprirono le legioni di Crasso: impossibilitato ad ingaggiare battaglia, il morale dell’esercito si sfaldò, portando la celebre disciplina romana al collasso e al fallimento delle ambizioni del triumviro. Dall’età imperiale l’esercito romano incluse spesso dei sagittarii, ovvero cavalieri leggeri armati di arco composito, per sfruttare le armi da lancio anche sui lati dello schieramento e nelle schermaglie.
Non mancarono infine alae più rare, attestate solo in specifici periodi e specifiche località, come le unità a cavallo di dromedari e cammelli, la cui esistenza è provata da iscrizioni del II secolo circa d.C (anche se alcuni studi storici prolungano fino al pieno III secolo d.C. l’impiego di tali formazioni, sebbene ormai ridotte di numero), che dimostrano l’esistenza in Siria della ala I Ulpia dromedariorum, formata da circa un migliaio di soldati in sella a dromedari.
Il ruolo degli ausiliari sul campo di battaglia era dunque assolutamente essenziale per le legioni romane, permettendo ad un esercito basato sulla fanteria pesante di avere sempre a disposizione militari con caratteristiche peculiari, utili ad affrontare il nemico e/o ad adattarsi a determinate zone geografiche e climatiche in cui altrimenti le sole legioni sarebbero risultate inefficaci o inadatte.
L’importanza delle milizie ausiliarie era tale che spesso dovette accadere che i generali romani facessero affidamento principalmente su queste truppe, con risultati tuttavia non sempre soddisfacenti. Livio infatti riporta (XXV, 33), come ammonimento dall’eccessivo uso di ausiliari e mercenari, il destino dei Romani guidati da Gneo Cornelio Scipione (padre del futuro Africano) in Iberia. Essi infatti fecero troppo affidamento sulla forza numerica dei miliziani celtiberi, cosicché quando questi ultimi si ritirarono dallo scontro, i Romani dapprima tentarono di supplicare gli ex alleati di rimanere e poi, constatato il loro rifiuto, si ritirarono dallo scontro con i Cartaginesi di Asdrubale, senza tuttavia riuscire ad evitare la disfatta finale.