Nell’arco di tutta la storia militare gli esempi di sacrifici personali compiuti da combattenti o ufficiali sono stati numerosissimi, oltre che incredibilmente vari per tipologia o scopo.
Nell’Antica Roma tuttavia vi era una pratica religiosa particolare, attestata da fonti letterarie come l’opera Ab Urbe Condita di Livio, che prevedeva un sacrificio rituale in guerra. Tale pratica era definita devotio ed era una tipologia particolare di voto. Quest’ultimo poteva essere definito come una sorta di contratto, cosiddetto pactum, che il mortale stipulava con le divinità e solitamente prevedeva una richiesta da parte dell’uomo verso uno o più dei in cambio di un’offerta di grande valore. Se la divinità avesse acconsentito alla preghiera allora il cittadino romano avrebbe provveduto a sua volta a compiere quanto promesso.
Nella devotio invece l’ordine è ribaltato e il romano avrebbe dovuto consegnare in anticipo l’offerta, ovvero la sua vita.
La pratica nel dettaglio ci è stata tramandata da Livio, ed è riferita alla battaglia del Veseri, del 340 a.C. In quell’occasione le prime linee dell’ala sinistra delle legioni manipolari romane collassarono sotto l’attacco latino. Osservando dalle retrovie la rotta del suo esercito il console plebeo al comando del settore, Publio Decio Mure, si rivolse al pontefice Marco Valerio, per chiedere la corretta procedura, pratica e orale, da seguire per la devotio.
Da principio era necessario che il console vestisse la toga praetexta, un indumento tipico degli ufficiali pubblici nelle cerimonie pubbliche ma anche il vestiario prescelto per le cerimonie funebri (che del resto non erano relegate, nel caso dei personaggi pubblici più in vista dell’Urbe, a mere funzioni private). Il console avrebbe dovuto successivamente porre sotto i suoi piedi un giavellotto e infine, con il capo velato, recitare una formula religiosa.
In principio egli doveva invocare le divinità, partendo da Giano (divinità degli inizi), passando poi a Giove, Marte e Quirino (la trinità principale del pantheon romano), Bellona (antica divinità guerriera romana), i Lari e le divinità novensili (ovvero quelle più recentemente integrate nel pantheon) e quelle indigete (le più antiche).
In ultima posizione, ma non per questo meno rilevante, arrivava l’invocazione ai Mani, ovvero delle divinità ctonie che frequentemente erano fatte oggetto di voti. La pratica della devotio è dunque connessa sia al mondo celeste (evocato all’inizio) che a quello infero (nella conclusione della formula) e a quest’ultimo il console consacrava non solo la sua vita ma anche gli eserciti nemici, in cambio della vittoria e della salvezza delle forze romane. Tramite la consacrazione i Romani rendevano gli uomini, gli oggetti e gli animali una vera e propria proprietà privata delle divinità invocate e si evince dunque che in quest’occasione ciò prefigurava una cessione alle divinità ctonie delle vite degli individui citati nei carmina della formula.
A questo punto il console saliva a cavallo, anch’esso bardato, e si lanciava contro le forze nemiche, trovando la morte nell’impatto o in seguito, nel combattimento in mezzo alle schiere avversarie.
Livio segnala al lettore l’effetto immediato che tale atto avrebbe avuto nei Romani: liberati dal timore religioso essi riacquistarono coraggio e attaccarono le forze latine, che invece erano arretrate dal corpo del console caduto, timorose di incorrere nella maledizione. L’esito dello scontro fu quindi ribaltato e, al prezzo di una vita, Roma ottenne la vittoria.
Nonostante la descrizione minuziosa fatta dallo storico patavino non è possibile sapere con esattezza quanto frequente fosse stata questa pratica nel periodo romano arcaico. I libri Ab urbe condita indicano con certezza due episodi di devotiones.
La prima, citata, del 340 a.C. e la seconda relativa alla battaglia del Sentino del 295 a.C., ad opera del figlio del console sacrificatosi 45 anni prima. Dalle fonti dunque sembra che la pratica della devotio ducis sia indissolubilmente legata ad una gens in particolare, quella dei Decii, tanto che per Livio l’essere piacula (ovvero sacrifici espiatori) dello stato era l’onorevole ma lugubre fatum (destino) della famiglia.
E’ verosimile che, al di là del numero degli episodi effettivamente verificatisi, questa pratica fosse già da tempo scomparsa nel I secolo a.C., quando Livio la descrisse. Insistere infatti minuziosamente sui dettagli sembra un modo dell’autore per dare ai Romani del suo periodo informazioni sulla cerimonia sacrificale e ciò sarebbe stato evidentemente superfluo se fosse stata ancora un’abitudine comune o quantomeno ben attestata.
In ogni caso la testimonianza della devotio rimane una preziosa fonte di informazioni sulle applicazioni pratiche della religiosità romana nell’arte militare e sulla loro cruenta efficacia.