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Raimondo Moncada e il ratto della Regina di Sicilia

Raimondo Moncada è uno dei protagonisti della Storia della Sicilia, ma prima di parlarvi di lui occorre fare un passo indietro. Dopo la morte di Federico III di Sicilia, per testamento veniva nominata erede del trono di Sicilia l’unica figlia del re. Il testamento disponeva pure che, essendo Maria in età minorile, si nominasse un balio della regina e un vicario del regno: venne scelto Artale I Alagona, conte di Mistretta, che della regina Maria era stato anche padrino di battesimo, essendo gli Alagona molto legati alla casa d’Aragona ed essendo già stato balio del re Ludovico di Sicilia, fratello maggiore di Federico e zio di Maria.

Questi, appena prese le redini dello stato, temendo le possibili rivolte della potente e battagliera baronia siciliana, e anche a causa di una legge promulgata dal nonno di Maria, che impediva la successione al regno per linea femminile, sentì il bisogno di rinforzare il suo potere chiamando a suoi coadiutori altri tre nobili, con i quali dette vita al governo, passato alla storia come il governo dei 4 vicari, formato dallo stesso Artale, da Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, Manfredi Chiaramonte, conte di Modica e Nicola Peralta, conte di Caltabellotta.

La vita di Maria prima del rapimento

Volgeva l’anno 1379, la regina Maria contava appena il quattordicesimo anno di età: ella era una bella ragazza, di carattere dolce, di costumi irreprensibili, nelle sue vene scorreva il caldo sangue delle donne andaluse. La fanciulla, regina di nome ma non di fatto, era quasi prigioniera dei quattro vicari che la tenevano relegata nella sicura fortezza del Castello Ursino di Catania, ben munita di armi e presidiata da numerosi fanti e cavalieri. Così la regina Maria, apparentemente signora di questa fortezza, era in effetti ben guardata da una numerosa servitù, assai ossequiosa e spagnolescamente servile, che sapeva ben rappresentare la sua parte di torma di carcerieri.

I giorni della giovanissima regina scorrevano tristi e malinconici. Forse, intelligente come era, essa ripensava alla fine immatura della sua genitrice, Costanza d’Aragona, morta proprio in seguito al parto di Maria; e alla sua infelice e curiosa condizione di padrona di un fiorente reame, guardata a vista e quasi comandata a bacchetta dai vicari, i quali governavano, a quanto dicevano, in suo nome. Chiusa nelle sue stanze, in mezzo alle sue damigelle d’onore, alle dame di compagnia, martoriata dalle sue insegnanti, la regina Maria si dimostrava affabile, buona, ma era sempre triste e pensierosa come certo non comportavano la sua leggiadria e la sua giovane età.

Molti baroni siciliani la chiesero in sposa, nonostante la giovanissima età, ma non furono fortunati, o per l’espressa volontà del balio, che per non perdere il suo potere non voleva che la regina si sposasse, o forse per desiderio della stessa che, data la sua fanciullezza, non si sentiva atta a portare il gravame del matrimonio. Essendo ormai però giunta in età da marito, e aumentando le pressioni dei Baroni, il Vicario del regno, Artale Alagona, aveva già scelto per lei un ottimo partito: il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, per legare la Sicilia al contesto italiano, ma vi fu una tenace opposizione di alcuni baroni, che preferivano l’influenza spagnola. 

Però, tra i tanti pretendenti siciliani, ve ne fu uno più ardito, che non volle adattarsi al rifiuto ricevuto: il conte Raimondo Moncada

Il racconto di quella sera

Era il mese di dicembre del 1379. Cominciava ad imbrunire e le nere nubi serotine scendevano sulla città, che si preparava alla lieta ricorrenza natalizia. Il freddo era intenso, la vetta ed i fianchi poderosi dell’Etna maestoso erano ammantati di neve. Dalle vie e dai quadrivi della città, saliva lento lento al cielo scuro un suono dolce e nostalgico: erano i caratteristici zampognari che suonavano nenie nostalgiche sotto qualche sacra icona natalizia. La poesia del Natale entrava dolce, lieve in tutti i cuori.

La città di Catania era tranquilla, le fazioni tacevano: quel Natale si annunziava pacifico. I fedeli cominciavano ad affollare le chiese, muovendo da diversi punti della città per assistere alle novene natalizie. Molta gente era nelle Matrici; era passata davanti all’elefante lavico, che, nella sua eternale e immobile tranquillità, sembrava che invitasse tutti, uomini e donne, grandi e piccini, ad essere migliori: tranquilli, riflessivi, pacifici.  Quasi la totalità della guarnigione della fortezza, messa in libertà, s’era devotamente rifugiata nelle diverse chiese.

La regina Maria, in privato, con un piccolo seguito di servi armati, doveva recarsi alla Cattedrale per la novena; almeno, così si sapeva. Proviamo ad entrare con la fantasia in quei momenti. L’ora in cui la regina deve recarsi in chiesa è suonata, il suo piccolo seguito è pronto, attende, giù nel cortile che lei abbia terminato il suo complicato abbigliamento. Poi, quando la regina con due damigelle d’onore è nel cortile interno della fortezza, il piccolo corteo si compone e si incammina verso l’uscita.

All’improvviso si sente un furioso scalpitare di cavalli. Una ventina di cavalieri, armati come per battaglia, con le visiere abbassate, entra di galoppo, a spron battuto dentro la fortezza. La sentinella alla porta era stata abbattuta con un buon colpo di spada e non aveva avuto il tempo di dare l’allarme inutile del resto, dato che la fortezza era quasi del tutto sguarnita. In un batter d’occhio, la regina e il suo piccolo seguito sono circondati e messi nell’impossibilità di opporre la benché minima resistenza.

La regina Maria è spaventatissima e stringe con ambo le braccia la vita di una damigella, dicendo: “Dio mio! Siamo perdute!”

“Non avete nulla da temere Maestà!” esclama con voce maschile e ferma, ma dolce nello stesso tempo, il capo di quella nemica schiera di cavalieri, facendosi avanti e alzando la visiera del suo elmo piumato e lucente. “Chi siete?” domanda ancora spaventata la giovanissima regina lasciando la sua damigella e guardando in faccia il cavaliere. Questo è un bel giovane, ardito, dallo sguardo di fuoco penetrante. “Maestà, sono il conte Raimondo Moncada, vostro servitore!”

“Voi, conte! Che volete da me? Siete ribelle! …Andate!”

“Perdono maestà!” fece il conte avvicinandosi alla fanciulla “L’amore, l’amore immenso… la vostra sovrumana bellezza…i vostri occhi… la vostra bocca rosata…”

“Che dite?… indietro ribelle!…” esclamò concitata e tutta tremante la regina, avendo compreso le intenzioni del conte, che s’era appressato per ghermirla alla vita.

Ma il giovane conte Raimondo Moncada, ormai ribelle, non aveva alcuna intenzione di abbandonare la sua bella e ricca preda e, afferratala strettamente, la gettò sul suo focoso cavallo, mentre lei, per la violenta emozione, sveniva. Montato in sella e stringendo al suo petto la bella Maria, voltò il cavallo ed a furia, come era entrato, usciva dalla fortezza seguito dai suoi cavalieri.

L’epilogo della faccenda

Il conte Raimondo Moncada condusse la sua bella e ricca preda prima nel Castello di Licata e poi al Castello di Augusta, dove il vicario Artale Alagona tenne l’assedio per due anni e riuscì a liberare la regina solo grazie all’arrivo di una squadra navale aragonese.

La regina venne inviata in Spagna, dove, dopo qualche tempo, sposò un suo cugino Martino il Giovane, figlio di Martino il Vecchio e, nell’anno 1392, Martino il Giovane e Maria sbarcarono in Sicilia e vennero incoronati nella cattedrale di Palermo. Nonostante il suo gesto efferato, quindi, Raimondo Moncada non fu re di Sicilia, come sperava. Il suo, finì col rivelarsi un ratto politicamente inutile.

Bibliografia

📖 Carmelo Catalano, Da Ziz a Palermo narrata con amore, Boopen Editore.
📖 Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Editore.
📖 Giovanni De Natale, Storie e leggende di Sicilia, Antares Editore.
📷 www.icastelli.it

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a cura di

Carmelo Catalano

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