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L’industria laniera

La rivoluzione urbana comportò un notevole incremento dell’allevamento dei caprovini. Quest’aumento non è da ricollegare ad usi alimentari perchè finalizzato alla produzione della lana.

Con cadenza annuale, venivano ripartite razioni di lana, di tessuti o di abiti già confezionati, ai dipendenti del tempio e del palazzo. La produzione di filati manteneva un costo conveniente se calibrata su grossi quantitativi e avrebbe reso, più tardi, questo prodotto adatto al commercio e all’esportazione.

Il ciclo della lana si strutturava in una sequenza di tre fasi: l’allevamento, la tosatura e la filatura/tessitura.

Per quanto concerne l’allevamento, l’amministrazione centrale affidava le sue greggi a pastori (in una proporzione di 1 a 150 circa) che si distribuivano sul territorio per sfruttarne i pascoli secondo gli andamenti stagionali. La gestione della transumanza era diversa nelle varie regioni secondo la conformazione che presentava il territorio: nella steppa siro-arabica beneficiavano delle germogliature dei pascoli delle steppe seguendo ritmi “orizzontali”, mentre sui monti Zagros erano costretti, per ovvie ragioni, a ritmi di tipo “verticale” per raggiungere i pascoli pedemontani e montani. Questa dispersione, che sicuramente giovava ai caprovini, rendeva miope l’amministrazione centrale la quale non era in grado di monitorare i tassi di accrescimento e di produttività delle singole greggi. I pastori venivano quindi sottoposti a controlli annuali, durante i quali l’amministrazione esigeva un nuovo nato ogni due pecore femmine adulte presenti nel gregge. Non veniva tenuto conto dei decessi naturali, era invece detratto dal computo il numero di capi abbattuti per usi cerimoniali, come sacrifici e banchetti.

La tosatura era un’attività che si concentrava in un ristretto lasso di tempo ma che richiedeva una quantità di manodopera tale da giustificare il ricorso al lavoro coatto. In questa fase viene sicuramente realizzato un ricavo di eccedenza, proprio grazie al basso costo dei braccianti. Prevalentemente, nel III millennio, veniva utilizzata la tecnica della cosiddetta “pettinatura e strappo”.

La filatura e la tessitura erano sicuramente le fasi di lavorazione più impegnative a livello economico, perciò veniva fatto ricorso al lavoro schiavile di manodopera femminile e minorile: le razioni alimentari erano rapportate al peso corporeo, dunque minori per donne e bambini. Venendo svolto in edifici adibiti a laboratori tessili, il rendimento lavorativo era tenuto sotto controllo dai sorveglianti.

Bibliografia

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a cura di

Martina Tapinassi

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