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Le Sefer Toledoth Yeshu: la risposta ebraica alla polemistica cristiana

I primi sviluppi storici del cristianesimo prendono le mosse dalla rottura con la matrice ebraica e la trasformazione in religione universale. Ma se ormai è ben chiaro alla comunità di studiosi come le prime religioni abramitiche siano inevitabilmente correlate, è molto affascinante capire come e quando tale frattura sia avvenuta. In altri articoli, abbiamo cercato di dimostrare come il passaggio sia stato graduale e probabilmente non netto, tanto è vero che sono note le comunità di giudeo-cristiani facenti capo, ad esempio, alla chiesa gerosolimitana guidata da Giacomo il Giusto, attestate su posizioni differenti rispetto al cristianesimo paolino in particolare per quello che riguarda l’osservanza della Legge mosaica.

Di questi gruppi intermedi troviamo giusto ricordare una definizione di Daniélou, che parlava di giudeo cristiani riferendosi ad ebrei che pur riconoscendo in Gesù di Nazareth il Messia non ne ammettevano la natura divina, come ad esempio gli Ebioniti (a cui dedicheremo un articolo a parte). Anche Boccaccini ci fornisce una definizione molto utile a comprendere la varietà religioso del contesto giudaico del I secolo; egli infatti sostiene come tra III secolo a.C. e il II d.C. vi fosse in Palestina il “convivere di una pluralità di gruppi, movimenti e tradizioni di pensiero, in un rapporto dialettico talora anche aspramente polemico ma non separato”. Considerando quindi che, secondo queste ipotesi, Gesù potrebbe essere stato un ebreo osservante semplicemente appartenente ad una corrente giudaica inserita nel solco del fiorente contesto della tensione apocalittica, dobbiamo immaginare che i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo si inasprirono probabilmente dopo la separazione effettiva.

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Santo Stefano riceve il diaconato e distribuisce le elemosine – Beato Angelico – Cappella Niccolina (Roma) ©

La polemistica pagana e le tensioni tra Ebrei e Cristiani nella Storia

Al netto di una frattura iniziata, secondo alcune ipotesi, già in età paolina, ci concentreremo in questa sede sui rapporti successivi e sull’effettiva gamma di contatti tra cristiani ed ebrei successiva all’età costantiniana. A questo proposito, come sottolinea la Taylor, nei primi due secoli dell’era cristiana in entrambe le religioni si sviluppò una forte spinta missionaria nelle medesime aree geografiche che portò a dibattiti e dispute a fini di recuperare un maggior numero di proseliti rispetto agli avversari. In tal senso, quello che emerge sia nelle fonti cristiane che in quelle ebraiche è una sorta di polemica incrociata con la nascita parallela di filoni “apologetici” in cui entrambe le parti si difendono (e si attaccano) reciprocamente. Che ci fosse un’osmosi e contatti (a volte anche accesi) tra le due religioni sembra evidente anche da quanto sostenne ancora Daniélou, il quale ipotizza come vi fosse l’effetto di una “propaganda ebraica sulle giovani comunità cristiane tra il 40 e il 70”. Alla corrente “anticristiana” di origine pagana promossa dai testi di Celso e Porfirio (di cui abbiamo conoscenza ad oggi solo perché citati indirettamente dagli scrittori cristiani che ne volevano confutare le argomentazioni) corrispose la nascita di un “antigiudaismo” cristiano, le cui istanze verranno poi riprese anche in età moderna e contemporanea (con risultati spesso grotteschi).

Le forme di ostilità nei confronti degli ebrei si possono riassumere in tre concetti diversi e che spesso, come sostiene Piero Stefani, si confondono tra di loro: antiebraismo, antigiudaismo e antisemitismo. Il temine antiebraismo, comunemente utilizzato per abbracciare in un arco temporale estesissimo tutte le forme di odio nei confronti del popolo d’Israele, si riferisce più propriamente di un sentimento precristiano, in età ellenistica e romana. Per antigiudaismo invece ci si riferisce più correttamente ad un sentimento maturato in ambiente cristiano ed indirizzata al giudaismo rabbinico in particolare quello dell’età tardoantica. Mentre per i primi due termini la connotazione è esclusivamente religiosa, per antisemitismo o antisionismo, la cui etimologia proviene dal nome biblico del figlio di Noè Sem (Gen 10, 22-31), si fa riferimento ad una definizione del 1879 di Wilhelm Marr e divenne poi sfruttata dai movimenti nazionalisti che tra XIX e XX secolo vollero connotare e definire le popolazioni secondo un criterio linguistico, ovviamente in concezione negativa e razzista.

In questo caso, per spiegare la reazione ebraica di cui vogliamo oggi accennare in questa sede, dobbiamo concentrarci sull’antigiudaismo di stampo cristiano. Questo odio nei confronti degli ebrei è basato su tre livelli ideologici: il primo è la concezione che l’ebraismo sia una religione esclusivamente collegata ad un’osservanza rigida della legge mosaica, il cui Dio sarebbe un mero esecutore di sentenze e condanne. Questa visione è frutto del lavoro e della diffusione di una certa polemistica anticristiana elaborata a partire dal IV-V secolo e compiuto definitivamente a partire dal VII secolo. Una seconda motivazione riguarda il concetto che Dio avrebbe sconfessato storicamente l’ebraismo, punendolo addirittura con la distruzione del Tempio da parte delle truppe di Tito nel 70. Oltre a queste motivazioni, che potremmo definire frutto di propaganda e di un’interpretazione teologica della storia, esiste anche un terzo piano, ovvero quello che il rifiuto ebraico di Cristo abbia causato al popolo ebraico la giusta punizione da parte divina, correlato, come nota sempre Stefani, al fatto che “il cristianesimo fosse associato alla gestione del potere mentre gli ebrei fossero in una posizione socio-politica discriminata”.

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Tortura dell’ebreo (dettaglio) – Piero Della Francesca – Basilica di San Francesco (Arezzo) ©

Se nella prima fase i cristiani si batterono di fronte ai romani per mostrarsi diversi dagli ebrei, considerati empi dagli storici pagani (ad esempio Tac., Ann. XV, 44 e Hist. V, 3), nella seconda fase gli attacchi agli ebrei da parte dei dottori della Chiesa furono moltissimi. Senza entrare qui nel dettaglio di ciascun riferimento, citeremo solo quelli di Origene che, prendendo le mosse dal passo evangelico di Mt. 27, 25, confermò come la colpa della morte di Gesù fosse estesa a tutto il popolo ebraico (Orig. CMtS 124). Il lascito del giudaismo era stato raccolto dal cristianesimo (Orig. HIs 3,1) poiché i destinatari originali del messaggio di Gesù lo avevano rifiutato, insultando direttamente Paolo e Barnaba (At. 13, 14-15). Sempre secondo Origene, il Tempio e il culto mosaico erano ormai privi di senso e utilità (Orig. Eb 8,5; 10,1) e la distruzione del Tempio ad opera dei Romani era in realtà frutto del castigo divino, come detto poc’anzi.

Il testo delle Toledoth: stratificazioni e versioni nel corso dei secoli

Se di questo tipo di letteratura cristiana esistono ampie tracce, consideriamo invece un esempio contrario, appunto le Toledòth Yeshu, un testo dalla storia editoriale e dalla multiformità delle versioni davvero interessante. Pur non valevole dal punto di vista storico, questi testi ci permettono di recuperare uno squarcio delle innumerevoli dispute e polemiche che animarono il confronto religioso non solo in epoca tardo antica ma anche medievale e moderna. Questo confronto non fu soltanto prodotto di contrapposizioni ma anche di reciproci prestiti, come rilevato da Piovanelli, secondo cui la diffusione di questo e altri testi anticristiani di matrice ebraica fu influenzata dalla diffusione di testi apocrifi cristiani, come il Vangelo secondo gli Ebrei citato da Origene e tradotto da Girolamo di cui le Tolédoth mostrerebbero (in alcuni passi) una parodia o un’antistoria.

Questo libello si diffuse probabilmente contemporaneamente alle prime opere antigiudaiche dei Padri della Chiesa (Tertulliano[1] e Giustino ad esempio) che appunto testimoniano una serie di accuse contro Gesù già circolanti in età pre-costantiniana. Anche nei Vangeli poi, vennero inseriti dei riferimenti che potrebbero attestare l’esistenza di versioni alternative della vita e morte di Gesù e della nascita del cristianesimo (ad esempio Mt. 28, 15).  Tornando però alla prima patristica, nel Dialogo con Trifone è lo stesso Giustino che riportò come circolassero accuse di magia verso Gesù (Giust. Trifo. LXIX) e anche Tertulliano, nel III secolo, riferì come sul conto di Gesù circolassero medesime dicerie su Gesù e sulla sua famiglia (Tert. De spect., XXX). Anche l’apologeta pagano e filosofo Celso (vissuto nel II secolo) nel suo Contra Christianos dimostrò di conoscere bene queste notizie che proporrebbero una versione alternativa della vita di Gesù che comprometterebbe la versione cristiana (I 28, I, 37-42). Queste notizie dunque attesterebbero l’esistenza di un nucleo antico di fonti, recuperate nel corso dei secoli da ecclesiastici che ne dimostrarono la conoscenza, come Agobardo di Lione[2] (778-840) e Amolone di Lione[3], suo successore.

Anche le fonti ebraiche, sebbene molto più tarde (XIV secolo) attestano l’esistenza di scritti antichi sul tema in lingua ebraica e aramaica, come scrisse il rabbino Shem Tov Ibn Shaprut nel 1385 nella sua opera traducibile con il titolo “Pietra di Verifica”. I due testi, che richiamano evidentemente i contenuti delle Toledòth, si intitolano Fatto di Gesù il Nazareno e Fatto di Gesù figlio di Pandera ambientate entrambe al tempo della dominazione romana. Delle Toledòth o comunque delle fonti che ne hanno contribuito alla formazione del nucleo narrativo se ne hanno contezza in un’opera di un monaco certosino Porchetus, che citò l’esistenza di una fiaba ebraica su Gesù. Quest’opera ebbe poi grande fortuna nel XVI secolo, finendo nelle mani di Lutero che scrisse di suo pugno un pamphlet di condanna contro questi testi, preceduto di circa un secolo dalla bolla dell’antipapa Benedetto XIII promulgò una condanna ufficiale di un libello simile alle Toledòth chiamato mar mar Jesu (1415). Si arriva così alla prima compilazione delle Toledòth in edizione a stampa, pubblicata nel 1681 da Wagenseil seguito nel 1705 da una versione totalmente diversa rispetto alla precedente da Huldreich. A Samuel Krauss, nel 1902, si deve la prima pubblicazione delle Toledòth, un testo che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi si propone di approfondire questa materia.

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Flagellazione di Gesù – Giambattista Tiepolo – Museo del Prado (Madrid) ©

Pochi anni prima della pubblicazione di Krauss (1875) A. Harkavy pubblicò una pagina delle Toledòth in versione aramaica che, nei più recenti studi di Y. Deutsch pubblicò due testi aramaici che presentavano una versione diversa rispetto a quella medievale e potrebbero rappresentare, una traccia della versione più antica e originale delle Toledòth. In base agli studi del linguista W. Smelik, basati su elementi morfologici linguistici e lessicali, lo stato dell’arte degli studi sul frammento aramaico permette di supporre con certezza che il testo originale sia stato concepito in Palestina tra il III e il IV secolo in JPA (Jewish Palestinian Aramaic). Successivamente, in una data posteriore indefinita, fu trasmesso in forma scritta o orale nella comunità ebraica babilonese, dove fu rielaborato e riscritto con eliminazione di elementi linguistici del JPA per concludere il suo percorso nuovamente in Palestina dove fu diffuso in LJLA (Late Jewish Literature Aramaic).  Al netto di questa travagliata e complicata storia editoriale che qui abbiamo sintetizzato “con l’accetta”, dobbiamo ora scoprire il contenuto delle varie versioni, suddivisi in macro aree narrative a seconda dell’autorità che giudica Gesù prima della Crocifissione. I gruppi sono sostanzialmente tre, quello di Pilato (il più antico che include anche i frammenti aramaici di cui abbiamo parlato sopra, ritrovati nella Ghenizàh del Cairo), quello della regina Elena (che è pure il più ampio come materiali e varietà linguistiche) e infine quello di Erode, pubblicato nel 1702 in forma inedita rispetto ai precedenti.

Il gruppo “Elena” è senz’altro il più interessante perché permette di cogliere le moltissime tappe narrative ed editoriale seguite dalle Toledòth poiché racchiudono sia manoscritti redatti in aree di influenza giudeo-tedesca, giudeo-araba, giudeo-italiana e area slava. I titoli dei testi sono vari e diversissimi a seconda dei manoscritti o frammenti che si vanno ad esaminare: troviamo sia le forme Sefer (Libro della), Toledòth (Storia di) oppure Ma’aséh (il Fatto di). Il protagonista è sempre Gesù (talvolta nominato come Yeshu o Yeshua’) con l’attribuzione del titolo haNotzri (Il Nazareno) o il dispregiativo Ben Pandera (figlio di Pandera, che spiegheremo in seguito) oppure come soggetto sottointeso come si trova nel Talmud con perifrasi come Pelonì (Il tale), Talui (l’appeso, riferito alla crocifissione) oppure otò weèth benò (tradotto come “lui e il figlio”, con riferimento critico alla presunta parentela tra Gesù e Dio).

Il manoscritto di Strasburgo

Al netto delle molte varianti narrative e linguistiche, ci concentreremo in questa sede sul contenuto del manoscritto di Strasburgo (dai paragrafi 1-12) e sulla sua versione alternativa della vita di Gesù. Prima di tutto, il testo si concentra su tutte quelle critiche che abbiamo citato poc’anzi sulla vita del Nazareno, in particolare sulla sua nascita che sarebbe frutto di un tradimento inconscio della madre, Miriam (Maria). Di stirpe davidica, essa era andata in sposa a Jochannàn (Giuseppe) ma un loro vicino di casa noto frequentatore di prostitute (Joseph Ben Pandera), con uno stratagemma giacque con lei al posto del marito che fuggì a Babilonia per il disonore. Il figlio di quest’unione, Jehosua/Yeshu, crebbe esperto nella Torah finché un giorno riuscì a sottrarre dal Tempio il nome divino e, una volta imparato, gli permise di accrescere il suo potere attraverso le arti magiche. Essendo questo manoscritto inserito nel primo gruppo, Yeshu ebbe a confrontarsi con la regina Elena (che secondo Di Segni sarebbe la sovrapposizione di tre figure storiche come Salomè Alessandra, Elena di Adiabene e Elena madre di Costantino) che stupì con le arti magiche imparate grazie all’uso del nome divino.

Dopo aver compiuto miracoli strabilianti, i saggi di Israele fecero imparare il nome divino a un altro ebreo, Jehudà Iscariota (che come in altri apocrifi diventa una figura positiva) con il quale ha uno scontro dopo che entrambi si erano librati in aria grazie ai poteri sovrumani acquisiti. Dopo essere scampato alla prima condanna grazie all’intervento dei suoi 310 discepoli, Yeshu venne nuovamente catturato grazie all’intervento di un suo discepolo di nome Ghisa che, inchinandosi di fronte al maestro, indicò ai dottori che fosse lui quello da arrestare. A quel punto Yeshu fu condannato a morte, ma non riuscirono ad appenderlo ad un legno come da usanza ebraica in quanto egli era riuscito tramite l’uso del nome divino a evitare che qualsiasi albero lo sostenesse; venne allora appeso ad un cavolo (che non era un albero e quindi poté reggere il peso del suo corpo).

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Fregio raffigurante la presa di Gerusalemme – Arco di Tito (Roma)

Una volta morto e sepolto, il corpo non venne ritrovato nella tomba e per i dottori della legge fu difficile spiegare alla regina la sparizione della salma; contrariata la regina minacciò di far uccidere tutti gli Ebrei se entro poco tempo non avessero rinvenuto il corpo di Yeshu. Mentre gli ebrei si disperavano, un uomo di nome Tanchumà piangeva in un giardino quando il padrone di quel posto rivelò di aver trafugato lui il corpo affinché non lo fosse preso dai suoi discepoli per millantare la resurrezione. Il tema del giardiniere che avrebbe anticipato tutti è presente infatti anche in Tertulliano, nel libello citato poc’anzi che indica l’esistenza di un nucleo narrativo preesistente, testimoniato anche da frammento aramaico del gruppo Pilato (frammento Ca 1).

Tornando al testo, il corpo dello sfortunato Yeshu fu dunque trascinato a Gerusalemme dalla regina Elena che esonerò dal supplizio il popolo. Dopo che i discepoli si sparsero in tutto il mondo (e il testo attesta per essi il martirio), nel testo viene riportato che essi rimasero all’interno della comunità di Israele, recando fastidio agli ebrei ortodossi. I Sapienti dunque mandarono ai credenti di Yeshu un infiltrato, dal nome Eliàhu, che li convinse ad infrangere i precetti della Torah (dalla circoncisione alle norme di purità). I Nazareni, cioè i credenti in Yeshu, chiamarono quell’uomo Paulus (con chiaro riferimento a Paolo di Tarso). Il testo infine parla di Shim’òn Kefa (Pietro) che in questa versione delle Tolédoth sarebbe un ebreo osservante che, minacciato per convertirsi al cristianesimo, accettò solo e soltanto per salvare la vita di altri ebrei.

Una precisazione doverosa

Abbiamo già specificato che questa raccolta di testi e tradizioni rabbiniche, seppur interessanti e piene di spunti per comprendere appieno il genere polemista cristiano ed ebraico, sono unanimemente ritenute dagli studiosi di entrambe le confessioni prive di veridicità storica. È innegabile tuttavia che esse rappresentino un patrimonio culturale di elevato valore per ricostruire la nascita di tradizioni alternative alle ricostruzioni proposte da testi canonici e apocrifi per testimoniare una volta di più come il giudaismo delle origini fosse attivo e non subì passivamente l’avanzata del cristianesimo. La fortuna successiva di questi testi, sebbene mai ritenuti dagli studiosi attendibili dal punto di vista storico, ha permesso di far conoscere al largo pubblico testi che altrimenti sarebbero rimasti perduti nei secoli.

Note al testo

[1] Cfr. Tert. De spectaculis, XXX: hic est ille, dicam, fabri aut quaestuariae filius, sabbati destructor, Samarites et daemonium habens; hic est quem a Iuda redemistis, hic est ille harundine et colaphis diverberatus, sputamentis dedecoratus, felle et aceto potatus; hic est, quem clam discentes subripuerunt, ut surrexisse dicatur, vel hortulanus detraxit, ne lactucae suae frequentia commeantium adlaederentur. /// È costui, lo dirò chiaramente loro, quel figliuolo di un fabbro, di un povero operaio che traeva la vita dal lavoro giornaliero, il distruttore del sabato, il Samaritano, quel che pareva avesse in sè una potenza strana ed avversa. Voi lo compraste da Giuda e fu lui che fu percosso con una canna e con schiaffi, fu lui a cui fu recato l’oltraggio maggiore d’essere avvilito dall’uomo; egli ebbe per bevanda fiele ed aceto. Questi è Colui che i discepoli cercarono di nascondere, perché apparisse come risorto un giorno, e che fu allontanato da chi era il padrone dell’orto, perché appunto le insalate che qui crescevano non. subissero danni, per il numero grande di coloro che accorrevano in quel luogo.

[2] Agobardo di Lione, De Judaicis superstitionibus; Infatti negli insegnamenti dei loro antenati, leggono che Gesù era stato un giovane presso di loro onorevole e che, educato dall’insegnamento di Giovanni Battista, aveva avuto numerosi discepoli, a uno dei quali, per la durezza e torpore mentale, aveva dato il nome di Cefa, cioè Pietro.

[3] Amolone di Lione, Liber contra Iudaeos, 39-40: Lo stesso nostro signore Gesù Cristo, per renderlo irrimediabilmente odioso ai suoi ascoltatori, chiamano nella loro lingua Ussum Hamizri, che significa […] dissipatore egizio. […]. Riconoscono che egli fu empio e figlio di empio, cioè di non so quale pagano che chiamano Pandera, dal quale dicono che la madre del signore fu corrotta e quindi nacque colui in cui noi crediamo.

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a cura di

Pietro Giannetti

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