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Le armi dei legionari: il pilum

Tra le armi più celebri della storia romana, nonché probabilmente la più longeva nell’utilizzo, non si può mancare di annoverare i pila.

Questi strumenti, la cui origine in verità non è chiara giacché mancano fonti certe, entrarono nell’uso delle legioni a partire dal IV secolo a.C., quando i soldati pesanti romani delle prime due file disponevano di due pila a testa. Quest’arma fungeva principalmente da giavellotto pesante (distinto quindi dal verutum, ovvero il giavellotto leggero fatto interamente di legno con la sola punta metallica che era riservato alle fanterie leggere già in età arcaica) e sua composizione variò nel corso dei secoli. Sappiamo che per Appiano Alessandrino esso consisteva in un’arma da lancio dotata di quattro facce, per metà in legno e per metà in ferro. In verità la lunghezza dei vari modelli di pilum, così come la proporzione tra parte in ferro e legno, variò nel corso del tempo: ad esempio nel periodo polibiano l’estensione della sezione metallica, fissata al legno alla fine di una sezione piramidale con vari perni in ferro, era non superiore ai 35 centimetri, mentre l’asta lignea poteva superare i 130, dunque molto diversa da ciò che riporta Appiano.

Al di là della specifica costruzione tuttavia è interessante osservare i motivi che resero i pila così popolari nell’esercito romano. L’uso si diffuse con l’aumento dei contatti tra i Romani e popolazioni italiche, come i Sanniti, che attuavano una guerra incentrata su modalità di combattimento del tutto diverse da quelle oplitiche, familiari a Roma fin dall’età monarchica. I pila sostituirono quindi nell’armamento di astati e principi le hastae adatte al combattimento oplitico, preferendo fornire i legionari di strumenti offensivi a distanza per affrontare un nemico che poteva anche evitare il confronto frontale diretto. Ovviamente, data la mole notevole del giavellotto pesante (che poteva essere utilizzato, in situazioni di emergenza, anche come lancia vera e propria), la distanza raggiungibile (poco più di una ventina di metri al massimo) con il lancio non era paragonabile a quella dei veruta o delle frecce e proiettili di arcieri e frombolieri, e la lentezza del lancio di un tale attrezzo lo avrebbe reso piuttosto inadatto a combattimenti individuali o a piccole schermaglie. Tuttavia esso risultava estremamente efficace in battaglie campali, quando intere file legionarie, a turno, scagliavano insieme i giavellotti contro il nemico, prima di ingaggiarlo frontalmente. Il  lancio contemporaneo di centinaia di pila poteva comportare perdite notevoli tra le fila avversarie, dato che potevano trapassare agevolmente anche gli scudi. Se le forze nemiche non subivano particolari perdite, tuttavia potevano essere ottenuti degli effetti secondari non indifferenti, che avvantaggiavano tatticamente le legioni. I nemici infatti potevano essere costretti ad allargare le fila del proprio schieramento per evitare il pericolo, contribuendo quindi alla dissoluzione di schieramenti chiusi come quelli tipici delle falangi greco/macedoni. Il generale epirota Pirro subì nelle prime battaglie contro i Romani, seppur vittoriose, notevoli perdite a causa dei giavellotti nemici. La sua fanteria pesante, tra l’altro per lui non sostituibile nel breve periodo e dunque estremamente preziosa, era armata di sarisse a due mani e procedeva in formazione compatta, subendo quindi in pieno l’impatto dei pila. Nel corso della sua campagna d’Italia, Pirro tentò di risolvere la questione mischiando arcieri e schermagliatori italici alla sua falange per diminuire le perdite ma snaturando però così nel tempo la composizione del suo schieramento.

Un ulteriore effetto del lancio dei pila è invece descritto da Cesare nel De bello gallico (I, 25). La punta di ferro dei giavellotti infatti sarebbe penetrata negli scudi dei Galli alla carica, non uccidendoli ma piegandosi dopo l’impatto. A quel punto l’arma sarebbe rimasta “incastrata” nello scudo dei nemici, costringendoli ad abbandonare la protezione e a combattere senza, esponendosi ai colpi dei gladi romani. Sebbene gli studiosi moderni non siano concordi su quanto questo utilizzo mirato fosse effettivamente voluto e su quanto esso fosse semplicemente casuale, è indubbio che l’efficacia del pilum fosse eccezionale proprio grazie all’utilizzo contemporaneo di armi come il gladio, ovvero spade medio-corte il cui colpo di punta dal basso verso l’alto necessitava di un nemico scoperto, senza particolari protezioni.

Il pilum rimase comunque nell’uso dell’esercito romano anche dopo il declino del gladio, nel II secolo d.C., quando la lancia e la spada divennero le armi più comuni, anche se, stando a Vegezio, quest’arma, parzialmente modificata (con una parte metallica di 22 centimetri circa e l’asta in legno di 162) e chiamata spiculum fu riservata gradualmente alle forze d’elite, come ad esempio i pretoriani. In ogni caso svariate evoluzioni del pilum continuarono ad essere utilizzati fino alla tarda antichità fino ai regni romano-barbarici, testimoniando l’eccezionale successo tattico/militare di quest’arma.

Bibliografia

🏺 Livio, ab urbe condita
🏺 Polibio, Historiae
🏺 Appiano Alessandrino, Keltikè
🏺 Cesare, De Bello gallico
📖 G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita e il legionario, Il Mulino, Bologna, 2008.
📖 M. Lucchetti, Le armi che hanno cambiato la storia di Roma antica, Newton Compton, Roma, 2020.

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a cura di

Leonardo Di Flaviani

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