Ancora nella seconda metà del IV secolo a.C. Aristotele lamentava la mancanza nella lingua greca di una denominazione specifica per “l’arte che adopera le nude parole e quella che adopera i versi” (Poetica, 47a 28 – 49b 29): per la prosa e per la poesia, insomma.
Di fatto, fino all’epoca ellenistica, l’espressione poetica e quella musicale erano legate in modo inscindibile. Lo attestano i principali generi musicali della Grecia classica: l’aulodia e la citarodia, rispettivamente canti accompagnati dall’aulòs e dalla kithàra, strumento a corde affine alla lyra ma con una cassa armonica più grande, fatta in legno, di dimensione trapezoidale e con un maggior numero di corde.
Secondo Aristotele il verso poetico si combinava con la melodia e il ritmo non solo nelle esibizioni solistiche dei cantori, o nel Ditirambo, canto corale dal carattere tumultuoso, sviluppatosi nell’ambito musicale dei riti dionisiaci, ma anche nella tragedia e nella commedia.
L’apporto della musica nella drammaturgia ellenica fu talmente decisivo che tragediografi e commediografi, oltre che occuparsi personalmente delle messinscene delle loro opere, erano al tempo stesso compositori delle musiche e delle coreografie. Purtroppo, solo una parte irrisoria di questo corpus musicale è scampata a un naufragio completo: in tutto solo ventitre frammenti su papiro o pietra sono giunti fino a noi, dove è utilizzata una notazione basata sulle lettere dell’alfabeto, per noi non priva di ambiguità.
In particolare, del periodo classico, non ci rimangono che due brevissimi frammenti dell’Ifigenia in Aulide e uno dall’Oreste di Euripide. Aristotele inoltre ci dice che la musica non accompagnava ininterrottamente l’azione scenica, ma in momenti definiti.
La convivenza tra musica e recitazione era verosimilmente favorita nel teatro greco dalla natura stessa della lingua, che imponeva di per sé innalzamenti o abbassamenti del tono della voce in corrispondenza delle sillabe toniche (accento acuto = innalzamento, accento grave = abbassamento, accento circonflesso = abbassamento seguito da un innalzamento) e dalla metrica quantitativa dei versi, basata su una regolata successione di sillabe brevi e sillabe lunghe.
Nella struttura tipica della tragedia la Pàrodo e gli Stàsimi, ovvero le parti cantate e quelle danzate dal coro, si alternavano agli episodi, corrispondenti ai nostri atti, recitati sulla scena da uno, due, tre o, raramente, quattro attori che potevano interpretare più di un personaggio a testa.
La Pàrodo era cantata in metro anapestico (breve-breve-lunga), il metro “della marcia”, particolarmente adatto ad accompagnare l’ingresso solenne del coro. Prologo (corrispondente in realtà ad un primo atto) ed Esodo (in origine canto d’uscita del coro, poi diventato l’ultimo degli episodi, dove la vicenda trova la sua risoluzione) erano costituiti da monologhi e dialoghi degli attori, prevalentemente in metro giambico (breve-lunga), il metro più vicino al tono comune della conversazione secondo Aristotele.
Nelle parti degli attori potevano essere introdotti versi lirici, cioè di lunghezza e schema metrico variabile; oggigiorno i musicologi ritengono che i versi lirici fossero cantati, mentre i versi in serie continua, ovvero versi accomunati dallo stesso metro, recitati dagli attori.
Il canto dunque, poteva intervenire, oltre che nelle sezioni assegnate al coro (Paròdo – Stàsimi – Esodo) anche in quelle di pertinenza degli attori (Prologo – Episodi). La gestione della versificazione all’interno del testo, ossia la distribuzione di versi lirici e versi in serie continua, rappresenta l’indicazione più accettabile e sicura per stabilire quali parti di una tragedia fossero cantate e quali recitate.
Vi era inoltre la possibilità che, accanto alla recitazione e al canto, venisse inserita anche una declamazione chiamata Parakataloghè, in cui i versi erano recitati con l’accompagnamento dell’aulòs. Ad esempio, forse erano declamati in parakataloghè, i versi dell’intervento della corifera, colei, o colui, posta a capo del coro, nell’Esodo dell’Oreste di Euripide.