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Professionisti cialtroni e malfidati: la satira dei mestieri dell’Antologia Palatina

La diffidenza, lo scherno pungente, l’attacco personale e l’offesa: questo è l’atteggiamento che mantiene una ben delineata forma artistica e letteraria dell’antichità greca e latina nei confronti di determinati soggetti e di precise classi sociali.

Esse sono connotate nella loro bassezza mediante il tratteggio di precise e varie caratteristiche che con grande efficacia annientano le caricature e le tipologie umane bersaglio prediletto anzitutto dei poeti dell’età arcaica, spesso aristocratici, che con disgusto guardano all’emergere dei parvenu, arricchiti irrimediabilmente rozzi, indi della commedia attica e siceliota, attenta alla mistione con il sostrato italico, infine degli epigrammisti ellenistici ed imperiali, imitatori dello ψόγος rivolto alle categorie di professionisti più in vista del mondo antico, secondo un modulo sicuramente più legato alla letterarietà, ma non dimentico degli stilemi che sin dal VII secolo a.C. hanno definito la poesia scoptica.

Questi ultimi esempi si trovano riuniti nella più ampia raccolta di epigrammi greci a noi giunta: l’Antologia Palatina.

Precedenti letterari della poesia ad argomento scoptico

Il genere poetico da cui la poesia scoptica ellenistica ed imperiale promana è, da un punto di vista tematico, il giambo, nella fattispecie il giambo arcaico, i cui esponenti più illustri erano stati raccolti nel canone poetico alessandrino: Archiloco – dalle fonti antiche indicato come il πρῶτος εὑρετής di questa forma -, Semonide e Ipponatte. I tre giambografi, pure ad altezze cronologiche differenti, erano espressione di un contesto politico e sociale che conosceva la suddivisione dei ceti sociali abbienti in particolari gruppi, i cui membri erano legati da ideologie ed interessi comuni, oltre che vincoli parentali e appartenenza sociale condivisa, le quali svolgevano un ruolo di primo piano nella vita politica della πόλις, peraltro non sottraendosi all’esercizio bellico che, pur presentando radicali differenze con il mondo omerico, caratterizzava la vita dell’aristocratico.

La partecipazione militare, ad ogni modo, trovava un suo completamento nello svolgimento di altre ritualità caratteristiche dei ceti sociali agiati; tra queste, primo rilievo ha sicuramente il simposio. Nome che denuncia il carattere conviviale di queste riunioni, le quali in realtà erano scandite secondo precise norme – come era usuale in tutti gli appuntamenti di vita sociale dell’individuo antico.

Banchetto su vaso nero a figure rosse

Il rito potorio, regolato secondo il monito della misura[1] e presieduto da figure preposte alla mescita ed alla somministrazione del vino in particolari e variegati recipienti[2], era intervallato a momenti di preghiera in cui, secondo le forme proprie dell’eucologia greca, si chiedeva la protezione e l’assistenza delle divinità nello svolgimento del simposio[3]. Indi, vi erano i momenti dedicati alla conversazione e soprattutto alla composizione poetica ed al canto. Proprio al contesto simposiale si collega la maggior parte della produzione poetica antica, la quale era modellata in base al καιρός, ovvero il momento puntuale, l’occasione, la vera misura che determinava l’argomento ed il metro utilizzato, in uno stretto legame tra versi ed attesa degli astanti, in grado di dirigere la poetica con le loro aspettative e richieste. La condivisione della riunione simposiale tra persone della stessa cerchia socio-culturale e politica favorisce la nascita di un linguaggio peculiare, in cui l’io poetico è una individualità che si mescola inevitabilmente alla collettività, facendosi portatrice di idee e sentimenti comuni, in cui è davvero difficile riuscire a definire codici per noi non sempre trasparenti e riferimenti alla contemporaneità talvolta estremamente nebulosi. Inoltre, proprio la dimensione in cui questi versi nascevano e l’influenza delle molte voci della consorteria hanno naturalmente favorito la creazione di motivi puramente letterari, spesso impropriamente riferiti agli autori stessi[4], i quali sono così rimasti imprigionati in tratti a loro affibbiati dai biografi antichi e che in molti casi ne hanno determinato la sfortuna ed il fraintendimento critico[5]

Il gusto mordace dello ψόγος[6] si esplicava quindi nello sberleffo di determinate categorie sociali, o anche di persone indicate nominatim, oppure personaggi conosciuti dal poeta/gruppo celati sotto nomi parlanti o maschere, i quali venivano punti per i vizi, per le goffaggini, per le sfortune finanziarie e per le varie brame[7].

Le tematiche molto generali sino ad ora elencate sono gli argomenti prediletti della giambografia arcaica, che andranno a confluire nel patrimonio, reinventato ed ampliato, della Commedia antica. Naturalmente, la scena comica, coi suoi personaggi buffi e caricaturali, ben si prestava alla ricezione di questi codici, e al loro naturale riadattamento: difatti, se il simposio, riservato ai pochi del gruppo sociale di riferimento, non poteva che avere bersagli definiti e personali, la Commedia, rappresentazione rivolta al consorzio cittadino, aveva obiettivi universalmente riconoscibili e perciò facilmente individuabili. I vizi pubblici trasposti sulla scena, la loro degradazione e l’attacco personale estrinsecato nell’ὀνομαστὶ κωμωιδεῖν sono tratti di intento marcatamente scoptico, che verranno ulteriormente riutilizzati nella poesia epigrammatica di età ellenistica ed imperiale.

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Bacco – Caravaggio – Galleria degli Uffizi (Firenze) ©

Epigrammi ellenistici ed imperiali ad argomento scoptico

L’epigramma di età ellenistica è noto per la sua ampia possibilità espressiva e per la ποικιλία di tematiche che abbraccia. Il distico elegiaco[8], forma metrica prediletta, è in grado di racchiudere forse assai più dell’esametro la varietà ed il nuovo che costituisce la cifra generale della poesia alessandrina. Gli autori di questa età davvero peculiare attingono spesso e volentieri all’eredità lasciata dagli antichi, giambografi e comici, specialmente in quanto favoriti dalla loro attività di filologi ed eruditi. Sappiamo bene come i maggiori esponenti della poesia ellenistica fossero impegnati in prima persona nella ricezione e nell’allestimento di edizioni filologicamente curate degli autori precedenti, prassi ecdotica che ha favorito la meditazione sugli stilemi consolidati e sulle peculiarità espressive poi rinnovate e continuate, secondo le nuove linee alessandrine.

Non costituisce eccezione il processo di rinnovamento che ha riguardato la poesia ad argomento scoptico. Le tematiche antiche sono state mantenute ed ampliate, pur se si registra un radicale cambiamento del contesto. Se critici come R. A. Reitzenstein (1861-1931) pensavano con certezza ad esecuzioni simposiali degli epigrammi anche in età ellenistica, altri, come U. Wilamowitz-Möllendorff (1848-1931), in conformità con i caratteri della poesia di tale periodo, propendevano per una destinazione squisitamente letteraria. Nella difficoltà di stabilire una prassi univoca, restano comunque innumerevoli testimonianze, che vanno fino al periodo bizantino, e testimoniano la fortuna del genere.

L’Antologia Palatina: stratigrafia di una raccolta poetica

L’Antologia Palatina[9], così denominata in virtù della collocazione del suo manoscritto principale (P) all’interno della Biblioteca di Heidelberg, conosciuta come Biblioteca Palatina, è in realtà oggi costituita da due codici, esito dello smembramento del Palatino originario rinvenuto ad inizio del Seicento su segnalazione del bibliotecario Jan Gruter (1560-1627) che lo fece studiare dal Salmasius (1588-1653), il Palatino 23 ed il Parigino Supplemento Greco 384 – quest’ultimo conservato presso la Bibliothèque nationale de France. Opera estremamente complessa nella sua nascita, va approcciata con spirito analitico e grande attenzione, costituendosi come un’unione di strati – denominati nuclei – differenti per mano ed epoca.

Suddivisa in 15 libri designanti ciascuno una precisa tematica, raccoglie una totalità che supera i 3700 epigrammi. Qualche indizio sulle fasi compositive sembra essere suggerito dal libro IV, il libro dei proemi, in cui sono racchiusi i proemi delle originarie antologie poetiche. Qui si incontrano il proemio della Corona di Meleagro di Gadara (130 a.C.-60 a.C.)[10], probabile primo nucleo della raccolta. Il secondo nucleo si ritiene essere costituito dalla raccolta di Filippo di Tessalonica (I sec. d.C.), autore anch’egli di un’omonima Corona.[11] Il terzo nucleo è ricondotto all’opera di un compilatore tardo e conosciuto: Agazia Scolastico (536-582 ca.), poeta e storico bizantino autore del Ciclo, raccolta che poi andrà a confluire appunto nell’Antologia Palatina. Infine, importante dovette essere la prassi di raccolta e ricollocazione di epigrammi contenuti in queste antologie operata dal bizantino Costantino Cefala (ca. X sec.), forse autore della sistemazione da cui si procedette per la costituzione definitiva dell’Antologia Palatina.

Questi appena menzionati sono i nuclei principali, raccolte via via successive le une alle altre poi ampliatesi, sino ad arrivare alla facies stabilita dagli eruditi compilatori bizantini alla metà del X secolo, quella da noi conosciuta.

Come si è detto, ogni libro che compone l’Antologia Palatina raccoglie al suo interno epigrammi riconducibili a specifiche tematiche[12]. Vi sono, ad esempio, componimenti di argomento erotico (V libro), omoerotico (XII libro), epigrammi anatematici (VI libro), o ancora sepolcrali (VII libro), per citarne solo una minima parte. Un libro davvero curioso e particolarmente spassoso, il quale rientra nel percorso imboccato da questo articolo, è l’undicesimo, costituito da epigrammi che recuperano l’arte mordace e l’invettiva che caratterizzarono appunto la giambografia arcaica e la commedia.

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Codice Palatino greco – Biblioteca Universitaria di Heidelberg ©

AP XI e la satira dei professionisti di bassa lega

Libro che raccoglie al suo interno due sezioni diverse e diseguali (epigrammi simposiali ed epigrammi satirici)[13], conosce uno scomma che si rivolge non tanto a singoli – seppur non manchino attacchi rivolti personalmente a Nerone o a Temistio – quanto a tipologie individuali e professionali. L’attacco mordace investe soggetti caratterizzati da deformazioni fisiche, difetti e vizi tra i più vari – alcuni autentiche reminiscenze della commedia italica, ad esempio la laidezza senile, ma non mancano attacchi ai graveolenti o ai “nasoni”, ai cleptomani e ai golosi – e pure categorie di professionisti ben conosciute nel mondo antico fatte oggetto di biasimo per la loro incapacità o dannosità – attacchi ai teatranti, agli astrologi, ai filologi, ai medici ed ai cerusici. Lo scherno, letterariamente abile e costruito, talvolta con una perfezione sorprendente, ha l’effetto di ridurre a caricature senza tempo i malcapitati oggetto di derisione, in un susseguirsi di maschere della quotidianità di ieri, talvolta molto affini alla quotidianità di oggi.

L’eleganza stilistica e la raffinatezza formale sono in molti casi assolutamente evidenti. L’utilizzo di giochi di parole, di neologismi, di complessi meccanismi come l’isopsefia e di lemmi dal significato ambiguo ed ambivalente rendono estremamente efficace e pungente l’attacco.

Alcuni estratti dalle fonti

Seguono ora alcuni – pochissimi, data la sede – esempi tratti dal libro XI dell’Antologia Palatina rappresentanti professionisti assolutamente poco raccomandabili. La traduzione è della sottoscritta.

Λουκιλλίου
Εἶπεν ἐληλυθέναι τὸ πεπρωμένον, αὐτὸς ἑαυτοῦ
τὴν γένεσιν διαθεὶς Αὖλος ὁ ἀστρολόγος,
καὶ ζήσειν ὥρας ἔτι τέσσαρας· ὡς δὲ παρῆλυθεν
εἰς πέμπτην, καὶ ζῆν εἰδότα μηδὲν ἔδει,
αἰσχυνθεὶς Πετόσιριν ἀπήγξατο· καὶ μετέωρος
θνήσκει μέν, θνήσκει δ’ οὐδὲν ἐπιστάμενος.
AP XI 164
 
Lucilio
Disse Aulo l’astrologo che il destino fatale era giunto,
dopo essersi fatto da sé l’oroscopo, e che avrebbe vissuto
ancora quattro ore: ma arrivò alla quinta, e gli toccava vivere da ignorante;
vergognandosi di Petosiri, si impiccò:
e così muore sospeso e da ignorante.

La sventura coglie Aulo, astrologo poco affidabile per le sue previsioni, il quale, timoroso nei riguardi della memoria di un predecessore come Petosiri, astrologo e matematico egizio del II sec. a.C., preferisce darsi la morte per impiccagione. Una morte che, come il poeta sottolinea nella pointe finale, non lava via la sua imperizia.

Λεωνίδα
Σιμύλος ὁ ψάλτης τοὺς γείτονας ἔκτανε πάντας
νυκτὸς ὅλης ψάλλων, πλὴν ἑνὸς Ὠριγένους·
κωφὸν γὰρ φύσις αὐτὸν ἐθήκατο· τοὔνεκεν αὐτῶι
ζωὴν ἀντ᾽ ἀκοῆς δῶκε περισσοτέρην.
AP XI 187
 
Leonida
Similo il citarista uccise tutti i vicini
suonando per tutta la notte, salvo il solo Origene:
difatti la natura lo fece sordo. Perciò a costui donò,
in luogo dell’udito, una vita più lunga.

Il musico Similo non è certamente il vicino che ci si augura di avere. Citarista per niente talentuoso, ha seminato vittime dopo aver pizzicato lo strumento per una notte intera. Unico fortunato superstite è il sordo Origene: che importa dell’udito, quando ci si può salvare dal nefasto Similo?

Καλλικτῆρος
Φαρμακίοισι Ῥόδων λέπραν καὶ χοιράδας αἴρει,
τἆλλα δὲ πάντ᾽ αἴρει καὶ δίχα φαρμακίων.
AP XI 333
 
Callictere
Rodone leva la lebbra e i noduli con i farmaci,
ma tutto il resto lo leva senza farmaco.
Medico senza scrupoli, Rodone leva malanni e ricchezze degli sventurati pazienti.
 
Ἡδύλου
Ἆγις Ἀρισταγόρην οὔτ᾽ ἔκλυσεν οὔτ᾽ ἔθιγ᾽ αὐτοῦ,
ἀλλ᾽ ὅσον εἰσῆ λθεν κὤιχετ᾽ Ἀρισταγόρης.
ποῦ τοίην ἀκόνιτος ἔχει φύσιν; ὦ σοροπηγοί,
Ἆγιν καὶ μίτραις βάλλετε καὶ στεφάνοις.
AP XI 123
 
Edilo
Agide non purgò Aristagora, nemmeno lo ha toccato,
ma, non appena arrivò, subito se ne andò Aristagora.
Dove mai ha l’aconito siffatta proprietà?
Oh fabbricanti di bare, ricoprite Agide di bende e corone!

Agide, medico più letale dell’aconito, miete vittime con il suo solo arrivo. La dipartita dell’ennesimo malcapitato paziente, Aristagora, è motivo sufficiente per incoronare e celebrare questo inusuale talento venefico. Agide, orgoglio dei necrofori, merita trionfi regali.

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Cerusico opera Enea – Pompei, Casa di Sirico – MANN (Napoli)

Note al testo

[1] Che pure in taluni momenti poteva essere infranta o sovvertita: esempio ne sono alcuni frammenti archilochei e, in contesto poetico differente, alcune odi alcaiche.

[2] È nota la varietà strutturale e cromatica che caratterizzava i recipienti greci. I vasi potori, in particolare, sono andati in età ellenistica incontro ad un perfezionamento sempre più sorprendente, il quale si giovava dei materiali esotici provenienti dalle regioni lontane conquistate da Alessandro. Oltre al materiale fittile di età arcaica e classica conservatosi fino a noi e alle pitture vascolari raffiguranti riti simposiali, significativi sono alcuni passi degli Etimologica e specialmente le minute descrizioni di vasi, calici e coppe presenti nell’XI libro dei Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati (ca. II sec. d.C.).

[3] Le invocazioni erano spesso rivolte a Dioniso, il datore della bevanda λαθικάδεα (Alc. 346 V., v. 3), ossia “scaccia-affanni”, oppure ad Apollo, custode di tutte le arti, tra gli altri.

[4] Imprecisioni commesse già dagli Antichi, portati alla costituzione di fantasiose biografie autoschediastiche sulla base dei componimenti stessi, sono anche alcuni tra gli ostacoli che immancabilmente i filologi e critici moderni e contemporanei incontrano nello studio della poesia greca arcaica. Fortunatamente, un risveglio razionalistico volto alla sempre più minuta ricostruzione del contesto storico e sociale antico ha potuto rischiarare il quadro a partire dalla seconda metà del Novecento, ma sempre facile è la tentazione di stampo romantico che vorrebbe attribuire a questi poeti afflati universalmente autobiografici e tentativi impressionistici, caratteri non propri di questa letteratura.

[5] Il bersaglio prediletto di questi attacchi fu sicuramente Ipponatte (VI sec. a.C.) – a turno definito poeta “disperato”, “outcast”, “poeta maledetto” o ancora “pitocco” e “laido” – il quale solo nel corso del Novecento, anche grazie ad un grande filologo italiano come Enzo Degani (1934 – 2000), conobbe studi adeguati e liberati da ogni sorta di moralismo o giudizio personale, che portarono alla luce la natura sostanzialmente parodica e letteraria della sua produzione.

[6] Letteralmente: biasimo, rimprovero.

[7] Un particolare successo ebbe la poesia ad argomento scoptico (giambica e successivamente epigrammatica) che andava ad attaccare i ghiottoni. Generalmente indicata come poesia gastronomica, essa si giovava di particolari stilemi, come l’utilizzo di un lessico alimentare molto preciso e non comune, la presenza di una terminologia floro-faunistica specifica e per noi di non sempre facile identificazione e un gusto per la rappresentazione cesellata di alimenti estremamente succulenti spesso associati a tipologie di cottura particolari, nonché accompagnati da intingoli e salse di tutto rispetto, oggetto di cupidigia da parte di golosastri pronti a tutto pur di avventarsi su tali prelibatezze.

[8] Forma epodica costituita da un esametro e da un verso di minore lunghezza, solitamente indicato con un po’ di imprecisione come pentametro, in realtà si tratta di due hemiepe maschili con i bicipitia del secondo hemiepes non solubili (– ⏔ | – ⏔ | – | – ⏖ | – ⏖ | ⏓).

[9] L’Antologia Palatina (AP) costituisce la parte principale della Anthologia Graeca (AG), ma non è l’unica. Un’altra importante raccolta è costituita dalla Antologia Planudea (Pl), opera del monaco, grammatico ed erudito bizantino Massimo Planude (1255-1305), il quale tra le altre fonti attinse anche all’AP. Il codice principale, autografo, che ci attesta la sua attività di raccoglitore di epigrammi è conservato in Italia, a Venezia, dove fu portato dal Cardinal Bessarione (1403-1472): il codice Marciano Greco 481. Gli epigrammi raccolti dal Planude e sconosciuti alla tradizione dell’AP sono raccolti nella cosiddetta Appendice Planudea (APl), la quale talora dagli studiosi viene indicata come il XVI libro della Palatina.

[10] Lo Στέφανος (in greco antico il termine che designa la “corona”, “ghirlanda” è maschile) del Gadarense è uno dei più antichi modelli di raccolta antologica da noi conosciuto, ed è anche la motivazione del termine antologia. Difatti, ad ogni poeta citato nel bellissimo proemio (AP IV 1) viene associato un elemento vegetale, più spesso floreale, ed è proprio la raccolta di questi fiori (gr. s. ἄνθος + λέγω, lat. florilegium) a fornirci il nome da noi ancor oggi utilizzato. Ci sono giunti frammenti papiracei in grado di integrare la nostra conoscenza della Corona di Meleagro.

[11] Di Filippo di Tessalonica non abbiamo notizie biografiche, né menzione da parte di Suida e nemmeno possediamo frammenti papiracei della sua raccolta di epigrammi, che dunque conosciamo solo tramite manoscritto. Abbiamo un indizio inerente alla sua prassi compositiva per tramite del lemmatista J dell’Antologia Palatina e desumiamo il suo processo letterario dalle sue stesse parole che, in una costruzione raffinata ed elegante, di nuovo fanno riferimento a boccioli floreali schiusi da poco. Da questa notazione desumiamo che i poeti inseriti nella raccolta facevano parte dell’epigrammatica più recente.

[12] Pur con l’intento di creare differenti spazi tematici, non mancano casi di collocazione poco perspicua all’interno della raccolta Palatina. Esempi ne sono Hedyl. AP V 199, Meleag. AP VI 162 (Nicolosi, 2020). Non mancano inoltre epigrammi ripetuti e doppiati, taluni contenuti anche nel libro di nostro interesse (Pontani, 1980).

[13] Titolazione originale è: Συμποτικὰ καὶ σκωπτικά.

Bibliografia

🏺 Antologia Palatina, vol. III, a cura di F. M. Pontani, Einaudi, Torino, 1980
📖 Storia delle lingue letterarie greche, a cura di A. C. Cassio, Le Monnier Università, Firenze, 2016
📖 A. Porro, W. Lapini, Letteratura greca, il Mulino, Bologna, 2017
📖 A. Nicolosi, Levità e robustezza. Gli epigrammi di Edilo di Samo, Aracne, Roma, 2020

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a cura di

Alessia Rovina

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