Prometeo è conosciuto da molti come il titano filantropo, cioè molto amico dell’uomo e pronto a immolarsi per il suo benessere, nonché dotato di grande scaltrezza e intelligenza.
Di fatto è così: figlio del titano Giapeto, nel primo libro delle Metamorfosi di Ovidio il titano viene subito tratteggiato nelle sue caratteristiche principali. Chiamato per dividere un bue tra uomini e dei, egli nasconde la carne sotto il fegato e gli intestini, mentre le ossa le nasconde sotto uno strato di grasso. Zeus accortosi dell’inganno sceglie la parte più pregiata, perciò il grasso, cadendo di proposito nell’inganno che punisce con il ritiro del fuoco degli uomini. Prometeo, che da sempre parteggia per il genere umano, lo ruba e lo riconsegna al genere umano. La punizione che subisce è una delle più famose: l’eroe viene incatenato ad una roccia del monte Caucaso e perpetuamente un’aquila gli mangia il fegato che di notte si rigenera senza sosta. Ad interrompere il supplizio interviene Eracle, che uccide con una freccia il rapace e libera Prometeo dalla roccia.
Svariate fonti gli riferiscono anche la creazione dell’uomo e della donna, con il suo afflato dona vita a due statuette d’argilla inermi.
Il mito nelle fonti
Il mito compare in moltissime fonti classiche, la più famosa sicuramente è quella di Esiodo nei passi della sua Teogonia:
“Invece Zeus nascose tutto ciò, sdegnato nell’animo suo, il giorno in cui lo trasse in inganno Prometeo dai tortuosi pensieri; per questa ragione egli riversò sugli uomini lacrimevoli affanni, e nascose il fuoco. Ed ecco che di nuovo il prode figlio di Giapeto rubò per gli uomini il fuoco al saggio Zeus, in un ramo cavo di ferula, di nascosto a Zeus vibratore del fulmine. Allora, adirato, gli disse Zeus adunatore di nembi: “O figlio di Giapeto, esperto sopra tutti di accorti pensieri, tu godi di aver trafugato il fuoco ed ingannato l’animo mio – grande sciagura per te stesso e per gli uomini futuri -. Io ad essi in cambio del fuoco darò un malanno, del quale tutti possan godere nell’animo, stringendosi con amore al loro malanno”.
Oppure troviamo la storia nella trilogia tragedia attribuita al poeta Eschilo, che si misurò nelle Lenee del V secolo (forse nel 460 a.C.) con il “Prometeo Incatenato”. Infine ebbe grande successo grazie alle Metamorfosi di Ovidio:
“Ma ancora mancava un essere più nobile di questi, dotato di più alto intelletto e capace di dominare sugli altri. Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto, a immagine degli dèi che tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto etere, ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata; mentre gli altri animali stanno curvi e guardano il suolo, all’uomo egli dette un viso rivolto verso l’alto, e ordinò che vedesse il cielo e che fissasse, eretto, il firmamento. Così, quella terra che fino a poco prima era grezza e informe, subì una trasformazione e assunse figure mai viste di uomini”.
L’Iconografia del mito
Andiamo ora ad analizzare alcune opere che rappresentano le scene del mito di Prometeo. Ovviamente, abbiamo effettuato una selezione ridotta a tre esemplari, un’inezia rispetto alla vastità di reperti che raffigurano il mito.
Il supplizio in una coppa

Nei Musei Vaticani è conservata una coppa laconica databile intorno al 560-550 a.C. ed attribuibile al maestro Arkesilas, in cui si vede in un’unica scena del catino il supplizio dei due fratelli titani: Atlante e Prometeo. Prometeo è incatenato ad una colonna dorica, le gambe piegate fanno sì che il corpo si inarchi all’indietro e l’addome sia come offerto all’aquila che si sta nutrendo e fa zampillare del sangue che stilla a terra. Il fratello deve invece trasportare un enorme masso sulla schiena, e il suo sforzo è sottolineato dalla mano sinistra che si tocca la parte posteriore. È significativo, nonché è un attributo, il fatto che i fratelli abbiano capelli e barba molto lunghi, questo sta ad indicare a chi osserva che il tempo trascorso dall’inizio della punizione è lungo e immemore. Un’interessante spiegazione di questa insolita iconografia, che difatti unisce i due fratelli, riguarda la fonte utilizzata, identificata nella Teogonia di Esiodo. Egli, infatti, sostiene che i due sono collocati agli estremi della Terra, Atlante ad Occidente e Prometeo ad Oriente segnando i rispettivi confini, ma allo stesso modo condividono il peso della volta celeste. È stato notato come una linea continua si diriga dal masso sostenuto da Atlante fino a dietro la testa di Prometeo. Inoltre, Esiodo scrive che il titano fu legato con lacci indissolubili a una colonna e non ad un masso come vuole la tradizione.
La liberazione di Prometeo

Oltre al momento del supplizio, iniziò intorno al VII a.C. a comparire il momento in cui il titano veniva liberato da Eracle. In questa bellissima forma vascolare custodita al Museo del Louvre e databile intorno al 560-550 a.C., si vede Prometeo quasi impalato ad un tronco con barbetta e fascia che gli cinge i capelli, alle sue spalle Eracle è accovacciato ed è rappresentato nell’atto di scoccare una freccia contro l’aquila. Alle sue spalle una figura a cavallo di difficile interpretazione in quanto rappresentato senza attributi. Gli studiosi propendono con molta cautela ad identificarlo con Zeus, seppur questo non lo si veda mai nell’iconografia a noi pervenuta.
Il supplizio in chiave moderna

Nella monumentale tela ad olio dipinta finita e ritoccata da Pieter Paul Rubens, conservata al Philadelphia Museum of Art, il supplizio è reso con grande asprezza e sofferenza, proprio come la faccia della vittima ci lascia immaginare. L’espressione è infatti deformata dal dolore e il corpo pare si stia spezzando da quanto è in tensione. Il corpo è reso di scorcio mentre una possente aquila è intenta a conficcare i grossi artigli grifagni nelle membra del titano, mentre si nutre del fegato del povero malcapitato reso in questo caso senza barba. In queste membra e in queste espressioni, Rubens amante dell’Italia, si rifà alle teorie di Lomazzo, e prima ancora di Leonardo, sui Moti dell’Animo che dovrebbero spingere l’osservatore ad empatizzare e a condividere l’idea di sofferenza.