Reso celebre da quadri, film, canzoni e cartoni animati, il mito di Andromeda e Perseo accompagna da sempre i nostri studi e la nostra immaginazione. Eppure, la parte più conosciuta risulta il finale: Perseo nota una bellissima ragazza legata ad uno scoglio destinata ad essere divorata da un orribile mostro. Decide quindi di ucciderlo ed ottenere così la mano della fanciulla. Quello che di solito non si conosce è il perché di questo supplizio.
La madre Cassiopea, infatti, proclamandosi la più bella tra le nereidi fece infuriare il dio del mare Nettuno, che per punizione mandò un mostro marino, Cetus, a distruggere le coste d’Etiopia. Il padre di lei, il re Nereo, consultò un oracolo che, come responso, gli ordinò di sacrificare la figlia. Cos l’epilogo della vicenda: Perseo uccide il mostro, sposa la figlia del re e dal sangue sgorgato dalla testa di Medusa appoggiata ad uno scoglio nasce il corallo.

Il mito nelle fonti
Ovviamente il testo antico che consolidò la fortuna del mito fu le Metamorfosi di Ovidio (Metamorfosi, IV, 663-752), di cui riproponiamo un estratto:
“Perseo riprese le sue ali, se le legò ai piedi, da un lato e dall’altro, si appese al fianco la lama adunca, e messi in moto i sandali solcò la limpida aria. Innumerevoli popoli gli sfilarono sotto e d’intorno; lasciatiseli dietro, giunse in vista degli Etiopi, in vista delle terre di Cefeo. Lì, Ammone aveva ordinato, spietato, che l’innocente Andromeda pagasse con la vita l’insolenza della madre. Appena la vide, legata per le braccia a una dura roccia (se non fosse stato che una brezza leggera le agitava i capelli e tiepido pianto le stillava dagli occhi, l’avrebbe scambiata per una statua marmorea), il pronipote di Abante inconsciamente se ne infiammò, rimase sbigottito, e incantato alla vista di tanta bellezza, per poco non dimenticò di battere nell’aria le ali. Atterrò, e disse: “O tu che non meriti queste catene, ma solo quelle che uniscono tra loro gli innamorati smaniosi, dimmi, te lo chiedo, il nome di questa regione e il tuo, e perché sei legata così”. Dapprima essa tacque, non osando – lei una vergine – rivolgersi a un uomo, e per la timidezza si sarebbe nascosta il volto con le mani, se non fosse stata legata. Gli occhi le riempirono di lacrime: solo questo poté. Ma lui insisteva, e allora, perché non pensasse che volesse celargli un delitto veramente commesso, gli rivelò il nome della regione e il suo, e quanto sua madre fosse stata superba della propria bellezza. Non aveva ancora raccontato tutto, che le onde scrosciarono e apparve un mostro che ergendosi sull’immenso mare veniva avanti e col petto copriva gran tratto di acque. La vergine si mette a gridare. Il padre a lutto è presente, e anche la madre, affranti tutti e due ma maggior ragione la madre, e non le portano aiuto ma solo pianti aiuto ma solo pianti adeguati alla circostanza e disperazione, e si aggrappano al suo corpo legato. Quand’ecco che lo straniero dice così: “Per piangere potrete avere tutto il tempo che vorrete; per portare soccorso, ci sono pochi attimi. Se io chiedessi la sua mano, io, Perseo, figlio di Giove e di colei che quand’era imprigionata fu ingravidata da Giove con oro fecondo, Perseo vincitore della Gorgonie dalla chioma di serpi, che oso andarmene per l’aria del cielo battendo le ali, non sarei forse preferito come genero a chiunque altro? A così grandi doti, sol che mi assistano gli dèi, cercherò comunque di aggiungere un merito. Facciamo un patto: che sia mia se la salvo col mio valore!”. I genitori accettano (e chi avrebbe esitato?), e lo scongiurano, e in più gli promettono un regno come dote. Ed ecco che come una nave lanciata solca con lo sperone proteso le acque, sospinta da giovani braccia sudanti, così il mostro scostando le onde con l’urto del petto non dista ormai dallo scoglio più dello spazio che una fionda delle Baleari, roteata, può far percorrere a una palla nel cielo. All’improvviso, dandosi uno slancio coi piedi, il giovane eroe se ne va in alto tra le nuvole. Appena la sua ombra si disegna sulla superficie del mare, il mostro si avventa contro l’ombra che vede; e come l’uccello sacro a Giove, quando scorge in un campo aperto una biscia che espone al sole il livido dorso, la assale da dietro e perché non si rivolti con la bocca crudele le conficca gli avidi artigli nel collo squamoso, così con volo veloce, lasciandosi cadere nel vuoto, il discendente di Ìnaco piomba sul dorso della belva, che si dimena, e fino all’elsa le caccia nella spalla destra la lama ricurva. Quella, tormentata dalla grave ferita, ora si solleva in alto nell’aria, ora si tuffa sott’acqua, ora si dibatte come feroce cinghiale spaventato da muta di cani che intorno gli latra. Lui si sottrae agli avidi morsi con pronti frullii, e, dove trova scoperto, vibra fendenti con la spada a forma di falce, ora sul dorso incrostato di cave conchiglie, ora sulle costole, ai fianchi, ora sulla parte che assottigliandosi finisce in coda di pesce. Il mostro vomita dalla bocca flutti misti a sangue rosso. Gli spruzzi inzuppano e appesantiscono le ali di Perseo. Non osando più affidarsi ai sandali imbevuti d’acqua, egli scorge uno scoglio la cui cima affiora quando il mare è tranquillo, è sommerso quando il mare è agitato. Si posa su quello, e reggendosi con la sinistra alle prime sporgenze, ripetutamente, tre e quattro volte, affonda la spada nei visceri. Grida di gioia e applausi riempiono la spiaggia e le case degli dei in cielo. Cassiope e Cefeo, il padre, esultanti, lo salutano come genero, lo chiamano soccorritore e salvatore della famiglia. Liberata dalle catene, avanza la vergine, ragione e premio di quella fatica. Quanto a Perseo, attinge dell’acqua e si lava le mani vittoriose; ma perché la ruvida rena non rovini la testa irta di serpi della figlia di Forco, Medusa, egli rende più soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua, e posa la testa sul mucchio, a faccia in giù. I ramoscelli ancora freschi e vivi assorbono nel midollo poroso il potere del mostro, e a contatto con questo s’induriscono, e assumono nel legno e nelle fronde una rigidità inusitata. Le ninfe del mare provano con molti altri ramoscelli, si divertono a vedere che il prodigio sempre si ripete, e li fanno moltiplicare gettandone i semi nell’onde. Ancora oggi i coralli conservano questa proprietà: d’indurirsi al contatto dell’aria, per cui quello che sott’acqua era un vimine, spuntando fuori dell’acqua si pietrifica.”
La storia piacque molto durante l’epoca medievale, tant’è che venne ripresa e resa ancor più celebre da Boccaccio, che la inserì nelle sue Genialogie:
“Perseo, tenuto che dagli antichi [è] padre di tutta la nobiltà di Grecia, fu figliuolo di Giove et Pane figliuola d’Acrisio. Onde Ovid. dice: Non pensa esser Iddio, né men pensava Perseo punto di Giove esser figliuolo, Del quale s’impregnò con pioggia d’oro Danae la madre; e partorì poi quello. Ma qualmente egli nascesse di Danae, ciò si può vedere dove di lei s’è trattato. Questi adunque già cresciuto (come dice Lattantio), per commandamento del Re Polidete pigliò l’impresa contra Gorgone; onde hebbe il cavallo Pegaso alato, lo scudo di Pallade, i taloni et la scimitarra di Mercurio, et incominciò a Prendere il volo da Aphesante, sì come narra Statio dove dice: Un monte v’era, che per fino al cielo Col dorso s’inalzava, et torto, et chino.Et così va continuando per cinque versi. La quale Gorgone da lui, senza patir danno, con lo scudo di Pallade fu veduta et considerata, di che la vinse et le levò il capo; onde poi con quello cangiò in sasso Atlante che gli negava l’hospitio. Indi ritornando verso la patria et volando per l’aria, vide nel lito di Soria vicino ai regni di Cepheo la donzella Andromeda legata ad un scoglio, per diffetto della madre et sententia d’Ammone, per essere dal monstro marino divorata; a cui d’intorno nel lito stavano piangendo il padre et i parenti. Di che egli ivi volato, et intesa la cagione di tanta crudeltà, fece patto con i suoi che voleva la donzella per moglie se dalla bestia fiera la liberava; il che fu fatto, conciosia che amazzò la fiera. Indi celebrandosi le nozze, Phineo fratello di Cepheo, a cui dianzi la sentenza la donzella era stata promessa per sposa, venne a ridomandarla, et quasi volerla per forza come cosa sua; di che Perseo contra lui et i fautori suoi si mosse, et molti ne amazzò; et alla fine, per spedirsene più tosto, converse tutti gli altri col mostrargli il capo di Medusa in statue marmoree. Oltre ciò, cangiò ancho in sasso Prito fratello di suo avo, il quale havea cacciato del reame Achrisio, et restituì il reame all’avo. Oltre ciò si dice ch’egli guerreggiò contra Persi, nella qual guerra amazzò il padre Libero che gli era contrario, et che ancho soggiogò tutto quel paese, al quale dal nome suo diede il nome, dove edificò Persepoli città reale; la quale poi, come scrive Quinto Curtio nei Fatti d’Alessandro, fu rovinata da Alessandro Macedonico tutto pieno di vino et di Crapula. Cangiò ancho in sasso (secondo Lattantio) l’avo Acrisio. Indi vogliono che insieme con Cepheo, Cassiopea et Andromeda sua moglie fosse assunto in cielo et tra le stelle di quello posto, sì come testimonia Anselmo dicendo: A questa si congiunge Cepheo re, et Cassiopea moglie di lui, alla quale s’aggiunge Perseo figliuolo di Giove et Danae, che appresso di sé tiene la stella d’Andromeda. Hora lasciando queste cose, è da venire alla spositione del figmento. Perseo guidato dal cavallo Pegaso dimostra l’huomo guidato dal desiderio della fama. Nondimeno, altri vogliono ch’egli nel passaggio havesse una nave la cui insegna overo nome fosse Pegaso. Lo scudo di Pallade credo che si debba intendere per la prudenza, con la quale consideriamo i fatti degl’inimici et noi stessi difendiamo dalle loro insidie et armi. I talari di Mercurio credo che significhino la prestezza et la vigilanza in essequir le cose. Così la scimitarra dalla parte di dietro acuta dimostra che noi al tempo di guerra debbiamo far preda, et rimover quelli dalle nostre occisioni. Di Gorgone et Atlante, a bastanza dove di loro si è parlato se ne ha detto. Che poi liberasse Andromeda dalla fiera marina, istimo questo esser historia, dicendo ancho nella Cosmographia Pomponio queste parole: Inanzi il diluvio (come dicono) fu edificato Ioppe, dove gli habitatori affermano che regnò Cepheo, per quel segno che ancho tengono del titolo del nome di lai et del fratello da loro conservato con grandissima riverenza; et perché ancho della favola d’Andromeda conservata da Perseo et liberata dal monstro marino, la quale tanto è celebrata dai versi dei poeti, si dimostrano l’ossa della fiera crudele, chiaro inditio della verità. Questo dice egli. Oltre ciò, Girolamo prete nel libro che compose delle Distanze di Luoghi dice: Ioppe castello maritimo di Palestina in Tribuda, dove fino al dì d’hoggi si mostrano i sassi nel lite dove fu legata Andromeda, la quale si dice che fu liberata da Perseo suo marito. Plinio poi, tra i famosissimi scrittori huomo notabile, scrive in tal modo: Della bestia, alla quale si diceva essere stata esposta Andromeda, furono portate a Roma l’ossa, le quali tra gli altri miracoli M. Scauro mostrò nella sua Edilità di lunghezza piedi quaranta, di altezza che trappassavano le coste degli Elephanti d’India, et le spina di grossezza sei piedi”.
Il mito nell’iconografia
Al Metropolitan di New York è conservato questo affresco staccato proveniente dalla Villa di Agrippa Postumo di Boscotrecase. L’affresco in III stile pompeiano mostra in un ambiente naturalistico e molto dettagliato, due momenti distinti del mito di Perseo e Andromeda. Nel mezzo la fanciulla è legata allo sperone di roccia che si erge al centro della composizione tagliandola a metà, in basso a sinistra è raffigurato il mostro Ceto, mandato da Poseidone a punire Cassiopea, madre di Andromeda. In alto a destra arriva Perseo facilmente riconoscibile grazie ai calzari alati, il falcetto e il mantello, raffigurato mentre chiede la mano della figlia prima di andarla a liberare. A sinistra l’ingresso in scena dell’eroe poco prima di piombare sul collo del mostro per ucciderlo. Il mito di Perseo e Andromeda fu scelto come soggetto almeno per sette affreschi pompeiani, e per adesso tutti quelli ritrovati seguono lo schema qui illustrato, tranne quello della casa nella Regione VI conservato al Museo Nazionale di Napoli.

Proveniente dal peristilio della Casa dei Dioscuri di Pompei, ed oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, questo affresco in quarto stile raffigura Andromeda, Perseo e in basso a sinistra il mostro marino Cetu. Qui viene scelto il momento finale del mito: Perseo in nudità eroica libera la principessa, non vi è nessun risvolto psicologico messo in risalto, ma solamente l’incontro amoroso dei due. È probabile, secondo i più recenti studi, che un modello iconografico di questo gusto sia apparso per la prima volta intorno al I sec d.C., optando così per non trattare la raffigurazione come una copia di un esemplare ellenistico.

Celebre per la sua bellezza, il dipinto conservato oggi alle Gallerie degli Uffizi del fiorentino Piero di Cosimo rappresenta uno delle massime manifestazioni di erudizione che committenti e pittori potevano avere nella Firenze del pieno Rinascimento. La rappresentazione, infatti, cela sicuramente delle allegorie che ancora dividono gli studiosi. La più dibattuta è quella di Berti (1980) che vede nella composizione un’anticipazione del ritorno dei Medici a Firenze dopo la momentanea cacciata del 1494, fomentata dal predicatore Savonarola. Nei personaggi sarebbero nascosti dei cripto-ritratti: Fineo sarebbe Giuliano de’ Medici, Lorenzo de’ Medici sarebbe ovviamente Perseo, portatore di grandi virtù morali che erige, come si voleva nei testi moralizzati del Medioevo, tre altar, distintamente a Giove, Minerva, Mercurio e visibili sullo sfondo. Il committente Filippo Strozzi ebbe difficoltà durante l’esperienza repubblicana di Firenze, così quando i Medici rientrarono in città nel 1512, interpretò il loro ritorno come una vera e propria personale liberazione. La scena inoltre vede delle diversità: una delle più evidenti è che la ragazza è legata ad un albero invece che ad uno scoglio. Questo si può facilmente spiegare pensando alle rappresentazioni teatrali dei miti inscenati a corte con l’aiuto dei pittori, come appunto faceva Piero di Cosimo al servizio della famiglia Medici.
