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La baronessa di Carini

Fra il profumo intenso degli aranceti in fiore, con lo sfondo magnifico di una pittorica catena di colline, si erge maestoso e turrito il Maniero di Carini. Il colosso di pietra, sentinella arcigna ed armata, posta a sbarrare il passo all’invasore dei vasti domini feudali, con i suoi cento occhi aperti sul vivo delle sue mura, con i suoi merli e le sue torri dominava, ed ancor domina, il fondo valle.

La cittadella di Carini è a poche miglia da Palermo e fu luogo di frescura, d’ispirazione poetica, di riposo per le anime elette nate nell’isola assolata e ferrigna o venuti dal mare, come ospiti o come conquistatori. La via che conduce a Carini è lussureggiante di verde, profumata dalla zagara, imbalsamata dagli effluvi del mare vicino.

Canta il carrettiere sotto la dorata sferza solare o al candido chiarore lunare le canzoni d’amore, le canzoni nate dalla schietta anima popolare. Il maniero carinese, intanto, dal viso arcigno e superbo, ci narra, lasciando cadere una lacrima, una orrenda e pietosa tragedia passionale.

In quello sfondo feudale sfavillante di sentimento e di cavalleria cinquecentesca, s’erge maestosa una bella e fragile figura muliebre, che col sangue del suo cuore appassionato, irrorò le magnifiche sale del munito castello. Un ignoto poeta dialettale del 1500 scrisse una lunga poesia, veramente bella, in cui con sentimento, con minuzie di particolari, ci racconta, riuscendo a  commuoverci, la vicenda della bella figlia del barone di Carini, Laura Lanza di Trabia, figlia di Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli, la quale a soli 14 anni era andata sposa a Vincenzo II la Grua Talamanca, figlio del barone di Carini Pietro III, si era trasferita nel castello, dove visse 20 anni generando 8 figli.

La poesia inizia con la descrizione della baronessa:

“La megghiu stidda chi rideva ‘ncelu
arma senza cappottu e senza velu […]”
“La migliore stella che rideva in cielo
anima senza cappotto e senza velo[…]”

Vittima di un matrimonio combinato, quindi, Laura intrecciò una lunga relazione con Ludovico Vernagallo, cugino del marito e di rango inferiore, il padre di Laura, Don Cesare, venne informato e li soprese insieme e li fece uccidere per pulire il suo onore, come si usava fare all’epoca, per il delitto il re di Spagna non condannò infatti il barone Lanza perché gli venne riconosciuta questa attenuante, era stato disonorato dalla figlia.

Approfittando di una assenza del marito, la baronessa accolse il suo amante nel castello e il poeta descrive così quei momenti:

“[…] Chi vita duci ca nuddu la vinci         
gudirla a lu colmu di la rota!     
lu suli di lu cielu passa e ‘mpinci  
li rai a li du’ amanti fannu rota     
na’ catinedda li curucci strinci    
battinu tutti dui supra na’ mota 
e la filicità chi li dipinci    
attornu è di oru e di rosa […]”
“[…] Che vita dolce che nessuno la batte
goderla appieno
il sole dal cielo passa e si ferma
i raggi avvolgono i due amanti
una catenella stringe i due cuoricini
battono entrambi all’unisono
e la felicità che li dipinge
attorno è d’oro e di rosa […]”

ma la felicità per i due innamorati non dura a lungo, una spia riferì al barone ciò che stava accadendo:

“[…] Tutta la notti nsemmula hannu statu
la cunfidenza longa l’hannu a fari  […]”
“[…] Hanno trascorso tutta la notte insieme
avranno preso confidenza a lungo […]”

Il padre allora, pieno di furore, adunata la sua soldatesca, col favore delle tenebre, muove verso il castello di Carini.

“[…] N’carnatedda calava la chiaria 
supra la schina d’Ustica a lu mari:
la rininedda vola e ciuciulia,  
e s’ausa pri lu suli salutari;  
ma lu spriveri ci rumpi la via,   
l’ugnidda si la voli pillicari! […]
“Calava il chiarore molto lentamente
sopra il profilo di Ustica, sul mare:
la sabbiolina vola e parlotta
e si alza per salutare il sole;
ma lo sparviero le taglia la strada,
l’unghietta se la vuole degustare! […]”

La baronessa era affacciata al verone principale del castello, dopo la notte d’amore:

“Chi si pigghiava li spassi e piaciri:
l’occhi a lu celu e la minti all’amuri,
termini stremi di li so’ disiri.”        
“Che si prendeva lo spasso e il piacere
gli occhi al cielo e la mente all’amore
termini estremi dei suoi desideri.”

Al chiarore dell’alba scorse il luccichio delle armature dei cavalieri e il venticello le portava il rumore degli zoccoli dei cavalli.

“Viju viniri ‘na cavallarizza,
forsi è me patri ca mi veni ammazza! […]”
“Vedo giungere un gruppo di cavalieri
forse è mio padre che viene ad uccidermi. […]”

Trasalì allora il cuore della donna amante, come quello della rondinella, che vede avvicinarsi il feroce e potente sparviero! La tragedia si avanza a grandi passi, portata dal furioso galoppo della giumenta del barone. La donna innamorata fa fuggire, prima, da una finestra del castello il suo tenero amante e, poi, corre in paese ed implora i suoi vassalli di nasconderla per scamparla alle furie del barone. Ma nessuno volle riceverla temendo, forse, di ricevere l’ira del barone.

La bellissima baronessa:

“[…] gridava forti <Aiutu Carinisi!       
Aiutu, aiutu, mi voli scannari!>  […]”
“[…] gridava forte, <Aiuto Carinesi!
Aiuto, aiuto, mi vuole scannare!> […]”

Ma le sue grida d’angoscia si perdevano in un silenzio tombale. Abbandonata da tutti, disperata, discinta, con i capelli al vento, ritorna al castello e, quasi vittima cosciente, come una tenera ed innocente agnelletta, si getta ai piedi del padre che, accecato dall’ira, snuda la spada e l’uccide.

” […] Lu primu corpu l’appi tra li vini 
L’appressu ci spaccau curuzzu e rini […]”
” […] Il primo colpo lo ebbe tra le vene
il successivo le spaccò cuore e reni […]”

Cadde così la donna e certo il suo ultimo pensiero dovette essere rivolto all’amante che era riuscita a salvare. Pianse poi tutta Carini e:

” […] Siccaru li garofali e li grasti,        
sulitu ch’arristaru li finestri:      
lu gaddu chi cantava un canta chiùj,   
va sbattennu l’aluzzi e sinni fuj. […] “
” […] Seccarono i garofani ed i vasi       
chiuse son rimaste le finestre:
il gallo che cantava non canta più
va sbattendo le alucce e se ne scappa […]”

Una folla straordinaria si raccolse, dopo, attorno al castello, la salma dell’infelice baronessa venne raccolta e pietosamente portata in chiesa.

” […] Amuri amuri chiaciti la sditta
ddu gran curuzzu e chiù nun t’arrisetta  
dd’ucchiuzzi, dda vuccuzza biniditta,  
oh Diu! Ca mancu l’ummira nni resta! “
” […] Amore amore piangete la disdetta
quel gran cuoruccio  che più non si rassetta
quegli occhiucci, quella boccuccia benedetta
Oh Dio! Che nemmeno l’ombra ne resta! […]”

Ora il pietoso pellegrino, che si reca a Carini, entrando nella chiesa, ove venne tumulata l’infelice innamorata, trova dinanzi alla lapide sepolcrale una lampada votiva, povera e scialba fiammella accesa davanti ai resti mortali di:

“[…] la megghiu stidda chi rideva ‘ncelu,
arma senza cappottu e senza velu;  
la megghiu stidda di li serafini,    
povira barunissa di Carini! […]”
“[…] la miglior stella che rideva in cielo
anima senza cappotto e senza velo,
la miglior stella dei serafini,           
povera baronessa di Carini! […]”

Oggi si sostiene che Laura Lanza di Trabia, baronessa di Carini è in realtà sepolta nella cappella dei Lanza all’interno della Chiesa di Santa Cita a Palermo.  Ma quello che importa in realtà non è il luogo di sepoltura, la cosa più importante di quella che era una leggenda di Sicilia è che non fu leggenda ma storia vera, di un amore infelice, di tradimenti e di onore, una storia che sconvolse la Sicilia per quanto fu cruenta l’uccisione, di chi aveva avuto la sola colpa, di voler scegliere ai privilegi l’amore.

Si narra che l’anima della baronessa si aggiri ancora nel castello e che, nell’anniversario della sua morte, la notte di quella ricorrenza, alle prime luci dell’alba, sulla parete della sala ove avvenne l’uccisione, appare una mano insanguinata, nella parete a cui si appoggiò la baronessa trafitta prima di cadere per terra.

Qualcuno inoltre dice di aver sentito, in quella notte, come un sussurro portato dal vento:

“Signur patri, chi vinistivu a fari?  
Signura figghia vi vinni a’mmazzari!”            
“Signor padre che siete venuto a fare?
Signora figlia vi son venuto ad ammazzare.”

Bibliografia

📖 Carmelo Catalano “La più bella storia: da Ziz a Palermo narrata con amore” ed. Boopen
📖 Giovanni De Natale “Storie e leggende di Sicilia” ed. Antares
📖 Salomone Marino “La baronessa di Carini” ed. Clio

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a cura di

Carmelo Catalano

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