Nei pressi del Foro Romano, alle pendici del Campidoglio, nel 1834 una campagna archeologia portò alla luce un edificio dotato di otto vani e un grande portico colonnato risalente al III o II secolo a.C.
Grazie alla testimonianza dello storico Varrone (De re rustica I,4) sappiamo che in questo spazio vi erano poste una serie di dodici statue raffiguranti gli dei più importanti per i romani. L’inscrizione dedicatoria incisa sull’architrave da parte di Vettio Agorio Pretestato conferma quanto detto. I sei dei e le sei dee erano disposti a coppia ed avevano presumibilmente questo schema: Giove-Giunone, Marte-Venere, Apollo-Diana, Nettuno-Minerva, Mercurio-Cerere, Vulcano-Vesta.
Il portico ad angolo ottuso presenta oggi due ali con una serie di dodici colonne corinzie riassemblate e, per quelle mancanti, sostituite con degli esemplari in travertino nel 1858. Le altre in cipollino sono bacellate, cioè hanno delle scanalature concave, e sono sormontante da un capitello con trofei reggono un architrave semplice. Si presume che così come lo vediamo oggi, il Portico sia un rifacimento di età Flavia, un’epoca nella quale il cristianesimo era andato sempre più rafforzandosi a scapito di un paganesimo sempre più defilato.
La serie degli dei era sicuramente di ispirazione etrusca e greca: era infatti tradizione presentare le dodici divinità in assemblea durante una delibera. I sacerdoti potevano offrire latte e miele se questi erano radunati a banchetto su triclini (lectisternio), cosa pensata ma improbabile, oppure posti nelle celle nella parete dove le persone potevano facilmente venerarli. I vani erano di dimensioni diverse e non illuminati, sormontati da un’altra serie di stanze di 4×3 metri fatte in cemento e mattoni a vista. Questi spazi quindi dovevano ospitare le statue oppure, nella migliore delle ipotesi, erano semplici tabernae a fini commerciali.
Il Portico era centro di passaggio tra il tempio di Vespasiano e il Tempio di Saturno, nonché il Tabulario capitolino posto sopra di esso.