Un altro personaggio che può fregiarsi del titolo di “cripto discepolo” di Gesù è certamente Giuseppe d’Arimatea che, come si evince dai Vangeli sinottici (Gv. 19, 38; Mc. 15, 42-47; Lc. 23, 50-56; Mt. 27, 57-61), ebbe l’onere e l’onore di provvedere alla sepoltura del suo Maestro. Le notizie biografiche presenti in questi passi su Giuseppe sono davvero scarne e diversificate: in Marco, ad esempio, egli venne definito εὐσχήμων βουλευτής (che significa testualmente membro di un consiglio) lasciando aperta sia la possibilità che si riferisse ad un seggio nel sinedrio ebraico sia ad una carica politica all’interno della βουλή della città di Arimatea.
Riguardo a questa cittadina si sa ben poco; l’ipotesi più accreditata identifica Arimatea nella città di Ramathaim, concessa dal sovrano seleucide Demetrio Nicatore (165-125 a.C.) a Gionata, fratello di Giuda Maccabeo (Flavio Giuseppe, Ant. XIII, 127) e attuale Rentis. L’ipotesi che questa città possedesse un consiglio alla maniera greca non è totalmente da scartare: già con i Tolomei la Palestina era entrata in orbita ellenistica. Con l’arrivo dei Seleucidi e, in particolare con il regno di Antioco III, la Giudea subì particolarmente la forte influenza culturale greca e, dopo un iniziale periodo di relativa autonomia, con il regno di Antioco IV Epifane e il sommo sacerdozio di Giasone, la pressione in tal senso produsse la costruzione, di fronte al Tempio, di una palestra dove si incoraggiava l’abbigliamento ellenistico presso i giovani (II Macc. 4, 7).
Sappiamo poi che probabilmente era rimasta in uso, dai tempi del dominio tolemaico (II Macc. 4, 12), una fortezza antistante al Tempio (Akra) che proprio Antioco IV, dopo aver spoliato il santuario giudaico, (168 a.C.), potenziò con l’obiettivo di punire la città e i culti locali (Flavio Giuseppe, Ant. XII, 252). Sebbene la vicenda di Giuseppe sia distante da quella dei Seleucidi, anche in seguito all’avvento della dinastia asmonea non è impossibile ipotizzare dunque che Arimatea avesse mantenuto usi e costumi greci.
Tornando alla biografia del cripto discepolo nei Vangeli, sulla stessa scia di Marco si pone la narrazione lucana, nella quale Giuseppe è un giusto, termine che, com’è noto, in connotazione ebraica significa osservante, membro di un consiglio che non aveva approvato la condanna a morte di Gesù. Diventa così evidente che, pur non essendo presente nel testo un riferimento chiaro al consesso giudaico, Luca sottintenda che partecipando a tale votazione d’Arimatea doveva essere un sinedrita a tutti gli effetti. Tuttavia risulta chiaro sempre da Marco (Mc. 14,64) che tutto il sinedrio votò all’unanimità la condanna di Gesù.
Dunque anche Giuseppe doveva aver votato a favore? Questa contraddizione, come proposto da Lupieri, si può spiegare in due modi: se Giuseppe fosse stato un politico di Arimatea, non avrebbe colpe per la condanna di Gesù e quindi avrebbe potuto senza problemi occuparsi del suo seppellimento. Nel caso invece fosse stato un sinedrita, non vi sarebbe comunque contraddizione poiché secondo la legge ebraica bisognava provvedere alla sepoltura di un condannato prima che il contatto con il cadavere procurasse uno stato d’impurità.
In Matteo il personaggio perde questa connotazione politica: nel primo caso egli è descritto come un ἄνθρωπος πλούσιος (uomo ricco) discepolo di Gesù che non si fece problemi a richiederne il corpo a Pilato. Nel Vangelo di Giovanni, Giuseppe era ugualmente solo un discepolo che seguiva Gesù “di nascosto per paura dei Giudei” e che si preoccupò di seppellire il corpo del Maestro nel rispetto dell’osservanza ebraica. Passando poi gli apocrifi, le cose si complicano ulteriormente in quanto Giuseppe sarebbe amico di Pilato stesso, come compare nel Vangelo di Pietro (2,3) e, addirittura nella versione “A” delle Memorie di Nicodemo (11, 3), egli non sarebbe un sinedrita ma membro del consiglio cittadino imprigionato proprio dagli Ebrei per aver chiesto e ottenuto di seppellire Gesù.
Dopo essere stato liberato dalla prigionia da Gesù stesso, Giuseppe tornò alla propria città e i capi della sinagoga, pentiti di come lo avevano incarcerato e anche di aver messo a morte il Nazareno, si prodigarono per scusarsi con lui (Memorie di Nicodemo “A”, 2,1). Nella versione copta delle Memorie di Nicodemo, Giuseppe diventa invece un levita che non aveva partecipato né alla condanna né all’uccisione di Cristo (Memorie di Nicodemo, Papiro copto. 7, 9). Sempre collegato alle Memorie di Nicodemo/Atti di Pilato ci è giunto un testo apocrifo dal titolo Narrazione di Giuseppe d’Arimatea, conservato in un manoscritto medievale del XII secolo. Questo testo, molto interessante poiché conserva i nomi dei due ladroni crocifissi insieme a Gesù (Gesta e Dema, Narrazione di Giuseppe I, 2-3) e la tradizione di un Giuda Iscariota infiltrato tra i discepoli forse insieme a Giovanni (Narrazione di Giuseppe d’Arimatea, I, 3-4), mostra un Giuseppe come il primo che incontra Gesù risorto, giunto a liberarlo nella notte dalle carceri ebree (Narrazione di Giuseppe d’Arimatea, IV, 1-2).
Successivamente, anche la patristica rivalutò la figura di Giuseppe d’Arimatea, facendo scomparire in lui il tratto timoroso nei confronti dei Giudei; tra i tanti citiamo Agostino d’Ippona e Amalario di Metz (IX secolo) che lo pose, secondo alcune interpretazioni, addirittura in posizione gerarchicamente più elevata rispetto agli apostoli. Con lo scorrere del tempo, la storia Giuseppe d’Arimatea si intrecciò con la leggenda del calice di Cristo, conosciuto come Graal, che conteneva il sangue del salvatore raccolto proprio dal cripto discepolo al momento della deposizione. Un’opera del VI secolo d.C., l’Itinera Hyerosolymitana attestava il sacro boccale tra le reliquie presenti nella Basilica di Costantino a Gerusalemme, assieme alla reale corona di spine e alla lancia di Longino, che avrebbe trafitto Gesù.
Tra tardo-antichità e Medioevo si fece così largo in Europa la convinzione che Giuseppe d’Arimatea avrebbe per primo portato la sacra coppa in Europa in quanto reliquia sacra. Secondo questa suggestiva lettura poi, costui avrebbe ripercorso in parallelo il percorso di Pietro e Paolo verso l’Occidente, quasi come se, attraverso il Graal, egli fosse latore di un cristianesimo riservato o, se vogliamo esoterico, contrapposto a quello essoterico diffuso dagli Apostoli ufficiali. Un’altra fonte di questa leggenda, una cronaca del V/VI secolo considerata però da alcuni un falso postumo, indicherebbe che il calice sarebbe giunto a Marsiglia assieme a Giuseppe, scacciato, dalla Palestina con Lazzaro, Marta e la Maddalena.
L’idea di una traslazione del Graal in Occidente attraverso Giuseppe d’Arimatea e la Maddalena (ripresa con successo da Dan Brown nel suo romanzo) fu rintuzzata nel XI secolo da R. de Boron che, nel suo poema Arimathea, riprese tali tradizioni suggerendo come la famiglia di Giuseppe avesse portato il Graal ad Avalon (Glastonbury) e ivi fosse conservato sino all’ascesa di Artù. Nel 1135 anche il monaco benedettino Guglielmo di Malmesbury, primo storico dell’abbazia, fece menzione dell’influenza di d’Arimatea a Glastonbury e, secondo una tradizione riportata da S. Cressy (XVII secolo) lo stesso Giuseppe vi giunse fisicamente addirittura nel 63 d.C.per restarci sino alla morte avvenuta nel 82.
A corollario di ciò, nel 1367, con una campagna di scavi ordinata da Edoardo III, fu rinvenuto presso l’abbazia inglese il presunto sarcofago del cripto discepolo. Sebbene recenti studi abbiano confermato l’artificiosità di tali ritrovamenti, è suggestivo e interessante approfondire come la storia della ricezione del personaggio d’Arimatea sia risalita attraverso i secoli dalla Palestina fino in Gran Bretagna. Nel medesimo luogo, con una pittoresca simbiosi letteraria, si assiste dunque, tra storia e leggenda, alla fusione tra le vicende bibliche e quelle del ciclo arturiano.
Ancora oggi il biancospino, presente in Inghilterra soltanto a Glastonbury, sarebbe secondo la tradizione, il segno del passaggio del d’Arimatea che avrebbe fatto nascere miracolosamente la pianta dopo aver appoggiato il suo bastone all’arrivo sull’isola. Affonda le sue origini proprio in questa tradizione una consuetudine inglese, arrivata sino ai giorni nostri: un ramo di questo arbusto, chiamato la “Spina Santa”, ogni anno veniva portato alla corte della Regina come dono benaugurante, almeno fino agli atti vandalici che purtroppo hanno distrutto la pianta nel 2010.