Nel graduale assoggettamento dell’area mediterranea e dell’Europa centro-occidentale lo stato romano ricorse non solo alla forza, bensì alla definizione di complessi legami giuridici che gli permisero di subordinare altre città e altri regni, senza arrivare, specialmente in età repubblicana, ad un controllo diretto del territorio.
L’arte diplomatica era quindi la via tramite cui Roma poteva creare legami giuridici con le altre gentes, vincolandole alla propria autorità. La guerra, in tale ottica, non era mai il fine ultimo dei Romani, bensì un mezzo tramite cui poter stipulare foedera iniqua, ovvero trattati diseguali, che prevedevano clausole e vincoli solo per la popolazione sconfitta o in difficoltà nel procedere delle operazioni militari.
L’attività diplomatica era considerata talmente essenziale che per alcune fonti romane, come i Libri ab Urbe condita di Livio, il rispetto dei vincoli giuridici era il motivo essenziale per cui Roma era legittimata a governare su altri popoli e a sviluppare dunque un’ideologia universalistica. E’ il caso, ad esempio, del celebre episodio di Asdrubale Haedus, capo delegazione cartaginese che si recò a Roma dopo la sconfitta di Zama del 202 a.C. In tale contesto Livio (XXX, 42, 15-17), parlando come espediente letterario per tramite del cartaginese, afferma che i Romani “ampliano il proprio potere usando clemenza verso gli sconfitti più che vincendo in battaglia”.
L’opera liviana, caratterizzata dall’esaltazione moraleggiante delle antiche virtù repubblicane, diviene quindi una preziosa fonte di informazione circa la struttura dell’iter diplomatico della Res Publica. Tramite numerosi esempi pratici di delegazioni straniere giunte a Roma (e viceversa) infatti l’autore volle evidenziare la moderazione e il rispetto delle leggi da parte dei Romani ma al tempo stesso ci ha fornito indirettamente preziosi dettagli sulle procedure diplomatiche.
L’azione diplomatica si svolgeva in diverse fasi, così sintentizzabili: viaggio di andata dell’ambasciatore, l’accoglienza nell’Urbe, il ricevimento in senato ed infine il viaggio di ritorno.
Sappiamo che Roma, gradualmente, strutturò percorsi standardizzati per recarsi nell’Urbe dai più svariati angoli del Mediterraneo. La prima parte del viaggio di solito era navale, più rapida ma certo non esente da pericoli, se è vero che Livio (V, 28, 2-3) riporta di agguati subiti anche dagli ambasciatori romani: ad esempio nel 394 a.C., mentre erano a bordo di una nave, tre legati furono assaliti dai pirati delle isole Lipari (anche se in seguito rilasciati).
Quando tuttavia la delegazione navale giungeva al porto prestabilito da lì iniziava un viaggio terrestre che portava i legati fino a Roma. Il tragitto poteva durare più giorni e pertanto venivano stabilite lungo strada delle tappe intermedie in cui i diplomatici ricevevano l’ospitalità di maggiorenti locali che erano soliti svolgere quell’attività, come nel caso, attestato sempre da Livio (XLII, 17, 1-9) di Lucio Rammio, nobile di Brindisi che aveva avuto vincoli di ospitalità con molti eminenti personaggi politici greco-macedoni diretti a Roma, tra cui il re macedone Perseo, con cui rimase in rapporti di amicizia e in contatto epistolare.
A volte i Romani potevano anche prevedere una scorta militare per le delegazioni, come attestato durante la seconda guerra punica, non solamente per difendere gli ambasciatori da eventuali criminali, ma anche per poterne controllare le attività fino a quando non sarebbero giunti a destinazione.
Una volta raggiunta l’Urbe il destino degli ambasciatori variava a seconda dei rapporti tra il loro stato e quello romano. Se essi erano in pace i legati venivano ricevuti e ospitati all’interno della città, mentre se si trattava di popolazioni ufficialmente in guerra essi venivano tenuti all’esterno del pomerium, un confine legale e sacrale che solamente in origine coincideva perfettamente con le mura della città, e ospitati in una villa pubblica adibita allo scopo.
In ogni caso gli ambasciatori dovevano segnalare la loro presenza al senato (e dopo il 242 a.c. al praetor peregrinus, ovvero il responsabile della loro ospitalità e scorta sul territorio romano) e stabilirsi negli alloggi pubblici fino alla data del loro ricevimento. Il tempo di attesa era estremamente variabile ma tendeva ad allungarsi di settimane se il senato era ostile nei confronti dei delegati e di chi essi rappresentavano.
I legati potevano essere ricevuti in due luoghi diversi. Se giunti in pace essi potevano interloquire con i senatori direttamente nella Curia, mentre se giungevano durante guerre in corso venivano ricevuti nel tempio di Bellona, antica divinità della guerra romana, che era non a caso situata all’esterno dei confini cittadini. Le trattative erano condotte per lo più oralmente (celebre il caso del greco Cinea, inviato nel 280 a.C. da Pirro e che si dimostrò talmente abile da incantare il senato e quasi fargli accettare la pace), anche se non mancano testimonianze dell’utilizzo di supporti scritti, come nel caso di Demetrio, fratello di Perseo, a cui fu concesso di leggere le volontà del padre invece che declamarle con le proprie parole.
Al termine dell’audizione il senato poteva prevedere una serie di doni (che doveva consegnare il praetor peregrinus) o riconoscimenti pubblici agli ambasciatori oppure, in caso di fallimento delle trattative, poteva essere dato l’ordine di ritirarsi da Roma entro un giorno e dall’Italia n altro lasso di tempo variabile (di solito alcune settimane), pena la perdita dell’immunità diplomatica. Anche nel viaggio di ritorno dunque gli ambasciatori potevano essere forniti di una scorta, in special modo coloro che erano stati allontanati con un responso negativo, per assicurarsi che rispettassero le tempistiche di uscita dal territorio romano.
Questa prassi diplomatica si strutturò verosimilmente in maniera graduale, con l’aumentare dell’importanza di Roma e del numero di delegazioni provenienti da località geografiche differenti.
Regolando le modalità e le tempistiche dei contatti diplomatici e delle udienze il senato poteva dunque manifestare concretamente il proprio potere e anche esercitare un certo ascendente sui diplomatici, che si trovavano in una situazione di subalternità alla volontà altrui. In un certo modo dunque la pratica diplomatica rese visibile e concreto il potere di Roma, dato che non era raro imbattersi in ambascerie che giungevano in città spesso con l’atteggiamento da supplici, vestiti con indumenti logori e/o scuri (simboli del supplicante) e che restavano in attesa nel vestibulum del senato. La città stessa quindi e la sua spazialità furono sfruttati dall’oligarchia romana per rendere evidente il proprio potere, creando un luogo dove si riunivano a parlamentare uomini politici e diplomatici provenienti da tutto il Mediterraneo, segnando inequivocabilmente la centralità dell’Urbe e del suo senato.