La guerra era una presenza costante nella società romana, ma nonostante il suo carattere endemico, essa doveva essere comunque indirizzata, per poter essere percepita come legittima, contro qualcuno di esterno alla società e che minacciava lo stato e la comunità da esso rappresentata.
Il termine hostis, spesso utilizzato con il valore di nemico durante la narrazione dei conflitti, si riferiva in modo generico anche ad uno straniero, inteso come individuo che poteva vantare diritti. Inizialmente dunque il termine non aveva necessariamente un’accezione così negativa ed ostile, ma poteva essere inteso come l’altro, non sottoposto all’autorità dello stato romano, ma non per questo del tutto estraneo ed incompatibile con le regole giuridiche dell’Urbe. Erano quindi rivali con cui era possibile trattare sulla base di valori, anche giuridici, comuni o quantomeno così percepiti a Roma (da cui si genera il concetto di ius gentium, ovvero il diritto delle genti). Da ciò si evince che una guerra contro tali nemici poteva essere ritenuta giusta, nelle fonti romane, solo di fronte ad una violazione di un trattato precedentemente stipulato.
Il compito di stipulare ed eventualmente valutare la violazione di un patto (foedus) nella Roma arcaica, stando alle fonti storiografiche, spettava ai fetiales, un particolare sacerdozio composto da venti membri, la cui fondazione è fatta risalire da Tito Livio alla piena età monarchica.
L’autore patavino presenta uno di questi sacerdoti per la prima volta durante il regno di Tullio Ostilio, terzo re di Roma, mentre si accinge a stipulare un trattato con il popolo di Alba. Il rituale, accuratamente descritto, prevede una formula orale, con cui il feziale si rivolge al re di Roma, chiedendogli dapprima il permesso di trattare con il popolo di Alba e in seguito di raccogliere l’erba sacra (herba pura). Ottenuta la rituale e positiva risposta del monarca il sacerdote si faceva nominare messaggero e rappresentante di Roma in territorio nemico, chiedendo l’estensione dei suoi privilegi sacrali anche per gli eventuali aiutanti.
La sacralità di una persona, o di un oggetto, nel diritto romano consentiva di divenire proprietà divina e dunque ogni atto ostile compiuto nei confronti del fetialis non sarebbe stato compiuto contro lo stesso e contro Roma, bensì anche nei confronti delle divinità tutelari del patto (solitamente era Giove che soprintendeva ai trattati). In questo modo al sacerdote/ambasciatore veniva riconosciuta l’immunità fisica, fornendo, a ben vedere, una concezione embrionale dei diritti internazionali di cui godono ancora oggi i diplomatici.
A questo punto il feziale toccava con un ramoscello sacro un altro sacerdote, nominandolo pater patratus, fornendogli il compito di pronunciare solennemente il giuramento. Quest’ultimo dunque, dopo aver dichiarato ad alta voce tutte le clausole e rivolgendosi sia ai Romani che ai nemici invocava Giove e uccideva con una selce un maiale, invitando la divinità a colpire al medesimo modo chiunque avesse violato quelle condizioni.
Se i patti non venivano rispettati, era compito dei feziali chiedere riparazione immediata della violazione e, se non ottenevano soddisfazione, dichiarare guerra per conto di Roma.
La procedura, anch’essa estremamente elaborata, è descritta sempre nei libri Ab Urbe Condita. Dapprima il sacerdote si sarebbe recato sul confine tra Roma e il popolo reo e lì avrebbe invocato Giove (in quanto, come detto, divinità tutelare dei patti stipulati), le frontiere (i fines), e il diritto sacro stesso,(fas), reclamando il risarcimento per la repubblica.
La stessa formula veniva ripetuta al momento dell’attraversamento del confine, davanti al primo uomo incontrato, poi all’ingresso in città ed infine entrando nel foro, dove richiedeva che il suo reclamo fosse accettato entro 33 giorni. Se ciò non avveniva il sacerdote, dopo essere tornato a Roma per riferire al senato, tornava sul confine e scagliava al di là di esso una lancia, dichiarando l’inizio delle ostilità.
La struttura cerimoniale riportata dalle fonti era quindi distinta in tre differenti parti. In primis vi era una rerum petitio (simile ad un moderno ultimatum) in cui si chiedeva un risarcimento, entro un limite prestabilito di tempo, imputando alla controparte una violazione di un trattato e del diritto e . Successivamente, se non si raggiungeva un accordo, si aveva la testatio deorum, rivendicando di fronte agli dei la legittimità della guerra che Roma andava ad intraprendere, Infine vi era la indictio belli, ovvero la dichiarazione di guerra ufficiale.
Si deve infine notare che Tito Livio descrive questo rituale nel I sec. a.C., poco dopo guerre civili durante le quali il rituale feziale fu utilizzato per dichiarare guerra non solo ad una potenza straniera, come l’Egitto di Cleopatra, ma anche a Marco Antonio, ovvero un romano, sotto la supervisione dello stesso Ottaviano Augusto, che per l’occasione era stato nominato pater patratus.
Il ruolo dei feziali è quindi, da questo punto di vista, inscindibile dalla propaganda bellica, che mirava non tanto a giustificare il proprio operato all’esterno, quanto all’interno, presso la propria opinione pubblica.
Anche per questo, probabilmente, già durante lo sviluppo dell’età repubblicana i feziali smisero di recarsi fisicamente in luoghi distanti, ma svolgevano il loro cerimoniale in un territorio precedentemente delimitato nei pressi di Roma stessa, che rappresentava dunque, a livello simbolico, lo stato estero, fornendo forse il primo concetto di extraterritorialità che sul lungo periodo e in altre epoche porterà allo sviluppo della concezione di ambasciate fisse, in rappresentanza dei propri stati.