Un periodo foriero di numerose innovazioni sul piano dell’arte militare è rappresentato dagli eventi relativi alle prime due guerre puniche, combattute tra Roma e Cartagine tra il 264 e il 202 a.C..
Le legioni romane si trovarono in questo contesto ad affrontare un nemico che era profondamente legato alle strategie belliche ellenistiche del periodo, a partire da quando i Cartaginesi chiamarono in loro soccorso Santippo, generale spartano, per contrastare il console Attilio Regolo, sbarcato in Africa del Nord.
Nella battaglia di Tunisi del 255 a.C. Santippo travolse le forze romane tramite il predominio della sua cavalleria ai lati (mentre anche frontalmente gli elefanti travolsero la fanteria leggera e impegnarono i manipoli della fanteria pesante ancor prima dell’intervento della falange cartaginese), arrivando a circondare l’esercito nemico ed evitando dunque di ricorrere ad uno scontro puramente frontale. Le fonti romane (Vegezio, De re militari, 3, praef.), ancora in periodo tardo, definirono la vittoria cartaginese non virtute, sed arte ovvero dovuta non ad una superiore virtù, ma ad una diversa tecnica e abilità.
Tuttavia proprio il concetto di virtus militare fu una delle cause del disastro romano. Per i generali e per i soldati capitolini infatti il coraggio era l’espressione concreta dei loro piani di battaglia, che si basavano su un’ardita carica frontale contro la linea nemica, senza sostanziali variabili tattiche, se si esclude l’alternanza delle truppe impiegate.
Tutt’altro che propensi a risolvere le battaglie con la sola azione frontale, i generali di cultura ellenistica erano pronti invece a sfruttare qualsiasi condizione del campo di battaglia e delle proprie forze per circondare il fronte nemico. Quest’evento infatti aveva un duplice scopo: il primo era puramente psicologico, dato che una grande massa di soldati si sarebbe vista improvvisamente attaccata da più lati, senza avere la percezione dell’effettiva forza numerica dei nemici. In secondo luogo dover affrontare avversari provenienti da più direzioni impegnava i manipoli romani su più fronti, togliendo ad essi la possibilità di gestire lo scontro nelle modalità classiche, ovvero tramite l’avanzata a più ondate di astati, principi e triari. Così circondati i Romani non potevano più esercitare pressione offensiva sul fronte, ed al tempo stesso i manipoli erano impossibilitati a manovrare individualmente, sommersi dal numero non solo degli avversari, ma anche dei propri commilitoni.
Nonostante le gravi sconfitte subite l’esercito romano non subì profonde innovazioni nell’immediato, giacché la retorica propagandistica sottolineò che il valore romano, nonostante i sacrifici compiuti e subiti, aveva infine permesso un esito favorevole del primo conflitto punico, e riscontrando dunque le medesime criticità durante la seconda guerra, scatenata dall’ultimo esponente dei Barca, Annibale.
Il generale cartaginese riprese e perpetuò le concezioni militari ellenistiche già diffuse in patria dai tempi di Santippo e poi di Amilcare, padre dello stesso Annibale. Non è un caso che il Barcide stesso fu addestrato, su richiesta del genitore, fin da tenera età da Sosilo di Sparta, che fu dunque il suo mentore militare.
In seguito alla conquista di Sagunto, città alleata di Roma in Iberia, Annibale decise di penetrare direttamente nel territorio romano, attraversando le Alpi. In nettissima inferiorità numerica Annibale aveva tuttavia un vantaggio considerevole nella cavalleria, che componeva circa il 13% del suo esercito (90000 fanti e 12000 cavalieri) partito dall’Ebro, (e si può supporre che tale percentuale sia cresciuta con l’assottigliamento delle fila puniche, a causa di circa 21000 congedati e rinforzi per il fratello Annone, oltre alle perdite subite sulle Alpi), mentre nell’esercito romano il rapporto tra equites e fanti era normalmente di 6:100, arrivando occasionalmente a superare il 10% soltanto nelle forze alleate.
Oltre alla differenza quantitativa si può evincere dal primo scontro presso il Ticino (218 a.C.) anche la superiorità qualitativa della cavalleria cartaginese, rappresentata in gran parte dai Numidi, esperti cavalieri del deserto in grado di manovrare molto più agilmente della cavalleria pesante aristocratica romana.
Durante la campagna d’Italia, Annibale sfruttò più volte la superiorità in termini di forze a cavallo per circondare costantemente l’esercito romano, impedendogli sia di manovrare sia di sfruttare la carica alternata delle linee legionarie, arrivando ad utilizzare anche le occasioni fornitegli dal terreno e dal clima come in occasione della battaglia del Trasimeno, quando sorprese le colonne romane in marcia sulle sponde nebbiose del lago, negando loro persino di schierarsi in formazione di battaglia per annientarle facilmente.
I Romani, impreparati a tale tipo di conflitto, enfatizzarono la metis punica, ovvero la slealtà, la scorrettezza, la crudeltà e il mancato rispetto di ogni formale convenzione bellica da parte dell’avversario. Essi continuarono ostinatamente a cercare la vittoria tramite l’azione della fanteria pesante, arrivando ad optare per ciò che Polibio definì legioni forti, ovvero formazioni da battaglia con effettivi quasi raddoppiati per manipoli nella fanteria.
L’intenzione romana era probabilmente quella di sfruttare le possibilità quasi infinite di reclutamento per vincere la guerra sul piano del logoramento, come avvenuto decenni prima con Pirro, che, impossibilitato ad affrontare ulteriormente i Romani durante la sua campagna, si era infine ritirato dall’Italia. Così facendo i Romani schierarono a Canne un’immensa armata, con circa 80000 soldati, per affrontare il generale punico. L’esito imprevisto dell’aumento numerico delle formazioni da battaglia fu tuttavia quello di rendere ancora più evidenti i difetti già osservati.
I manipoli erano divenuti ancora meno manovrabili per il sovrannumero di soldati e il rapporto percentuale tra cavalleria e fanteria fu ancora più squilibrato a favore di quest’ultima. Annibale invece, oltre a mantenere la superiorità della cavalleria, impostò diversamente la sua fanteria, rompendo la convenzione di schierarla in linea falangitica. Egli infatti ebbe l’idea di avanzare il settore centrale dell’esercito, rappresentato dai Galli, facendo rimanere più distanziati gli Iberi e, ancora più ai lati dello schieramento, la sua fanteria veterana africana.
Quando i manipoli Romani caricarono si trovarono dunque dapprima ingaggiati con i Galli, che cedettero rapidamente terreno. Nell’avanzata i Romani trovarono le altre forze cartaginesi ai lati, più esperte e pesantemente armate. L’effetto fu quindi quello di convergere sempre più verso il centro, nell’unico settore dove essi avanzavano facilmente. L’immensa massa di soldati romani si trovò ad agire in uno spazio sempre più angusto, finché, nel pomeriggio, non sopraggiunse la cavalleria numida alle loro spalle, che aveva annientato le deboli linee di cavalieri romani.
Così circondati, i Romani non poterono continuare a concentrare le loro forze sullo sfondamento centrale ma non poterono neanche più allargare il fronte di battaglia per sfruttare la superiorità numerica. Sconfitti, essi furono completamente sbaragliati da una forza che numericamente era a stento la metà della loro, certificando loro malgrado l’efficacia delle impostazioni belliche annibaliche, a cui Roma dovette infine adattarsi.