Cosa sappiamo della navigazione degli Antichi Egizi? Gli Antichi Egizi erano abilissimi architetti (guarda le piramidi e i templi!): questo lo sanno tutti sin dalle scuole elementari. Erano anche eccellenti artisti (guarda i rilievi e i dipinti!): anche questo è ben noto. Inoltre, erano discretamente esperti in medicina (guarda le mummie!): potrebbero dirtelo anche i bambini dell’asilo.
Ma alle scuole elementari ci insegnano anche che i navigatori per eccellenza erano i Fenici (e infatti di questo importante popolo si impara questo e pochissimo altro, in genere), che magari i Greci, vivendo in una terra frammentata in isole e isolotti, hanno saputo lanciarsi verso i perigliosi flutti e fondare le ben note colonie cui tanto devono gli operatori turistici dei Paesi affacciati sul Mediterraneo.
Gli Antichi Egizi e la navigazione
E gli Egiziani? Va be’, loro navigavano sul Nilo: le abbiamo viste tutti quelle imbarcazioni sottili, talvolta sproporzionatamente piccole sotto i piedi dei loro occupanti, raffigurate sulle pareti di tombe e templi. I più informati potranno parlarti dell’imponente Nave di Cheope (43,6 metri di lunghezza), perfettamente smontata in più di 1200 pezzi e conservata presso l’omonima piramide e ricostruita in una decina d’anni, con meticolosità certosina[1]. E poi?
Spesso, soprattutto in passato, erano gli stessi egittologi a remare contro (mi si perdoni il gioco di parole!), affermando che gli Egiziani si avvalessero proprio di esperti di provenienza prima fenicia, poi greca, ogni volta che volessero avventurarsi sull’acqua salata[2]. Oggigiorno, invece, grazie a diversi studi ed indagini, si è giunti alla conclusione che gli Egiziani fossero perfettamente in grado di navigare in mare, con difficoltose condizioni atmosferiche e praticando la navigazione d’altura e non solo quella sotto costa, come per molto tempo si è creduto. Anche la scrivente ha dato il suo modesto contributo a fare luce in questo campo, come vedremo fra poco. Ma prima facciamo una brevissima panoramica su quanto si sa della struttura delle navi.
Cenni di struttura delle antiche navi egiziane
Gli Egiziani adoperavano, per tutte le tipologie delle loro imbarcazioni, sia fluviali che marittime, un sistema comunemente chiamato shell-first, o anche a fasciame portante che implicava l’assenza di chiglia e costole e la costruzione di una struttura di assi assemblate come mattoni, con l’inserimento di travi trasversali per ottenere un rafforzamento laterale della carena. Si partiva da un’asse centrale, di varia lunghezza, alla quale si fissavano le rimanenti tramite mortase e tenoni, grappe metalliche (o lignee) a coda di rondine, o entrambi i metodi.

Quando la struttura di assi aveva raggiunto l’altezza richiesta, l’intera costruzione era completata con il parapetto
superiore ed una serie di travi trasversali, di cui abbiamo fatto cenno, inserite nella parte più alta del fasciame. Esse non solo sopportavano il peso delle assi del ponte, ma fungevano da supporto per le paratie trasversali e per la carena, prevenendo l’eventuale inclinazione dei lati all’esterno. Nelle imbarcazioni più grandi la carena era ulteriormente rafforzata da una piattaforma centrale o trincarino, che si estendeva per l’intera lunghezza della nave da prua a poppa, sistemata proprio sotto alle travi trasversali. Il trincarino era sostenuto da svariati puntali che erano inseriti
un’intelaiatura posizionata sul fondo della carena[3].

Naturalmente, una struttura simile risultava efficiente in un ambiente fluviale, ma per far sì che una carena priva di chiglia e costole potesse sostenere le peculiari sollecitazioni esercitate dalle onde del mare, è stato necessario che venissero introdotti particolari accorgimenti strutturali.
Questi sistemi, che formavano un solo efficace apparato, sono chiamati cordame incurvante (hogging truss) e funi di
circonferenza e compaiono già sulle prime raffigurazioni di navi di cui si sappia che hanno affrontato viaggi per mare: le navi del Faraone Sahura, nella V Dinastia. Si tratta di imponenti trefoli di gomene, che posizionati nei punti giusti e assicurati con la dovuta tensione, permettevano una perfetta resistenza. Il cordame incurvante consisteva in uno spesso trefolo di corde che veniva passato al sopra del ponte, da prua a poppa, e sostenuto tramite forcelle di legno. Le sue estremità erano fissate a due altri trefoli, le funi di circonferenza, che abbracciavano la prua a la poppa.

Facciamo un esempio: nella foto qui sotto vediamo che la leva di tensione c era confitta attraverso i trefoli e veniva girata fino a che il cordame fosse ritorto al richiesto grado di tiraggio, l’effetto del quale era circoscritto dalle legature ai punti a e b e dovunque per la sua lunghezza, cosicché il cordame si torceva come un solido unicum. Per evitare che si sbrogliasse, la leva era assicurata per un’estremità al cordame stesso, e per l’altra alla forcella d posta al centro della nave.

Collegata alle forcella centrale vi era una leva di tensione che si inseriva fra le corde e veniva torta fino a presentava mantenuto ad una costante tensione esercitata da diversi punti, bilanciati tra loro raggiungere il dovuto grado di tiraggio, con un effetto a tornichetto.
Dunque tutto lo scafo si presentava mantenuto ad una costante tensione esercitata da diversi punti, bilanciati tra loro[4]. Questo sistema verrà adottato, senza significativi cambiamenti, per tutta l’epoca faraonica, infatti è visibile, praticamente identico, anche sui famosi rilievi delle navi della regina Hatshepsut a Deir el Bahri, ed in quelli della battaglia contro i Popoli del Mare di Ramses III.
Nave d’altura egiziana impegnata nella battaglia contro i cosiddetti “Popoli del mare” nei rilievi del tempio di Ramses III a Medinet Habu – H.H. Nelson, Medinet Habu I: Earlier Historical Records of Ramses III ©
Per quanto riguarda l’alberatura e la velatura, nell’Antico Regno si adottò un albero bipode, sistemato nella scassa verso la prua. A dispetto della sua dimensione, comunque, poteva essere smontato, quando non in uso, e riposto su apposite forcelle. Nelle raffigurazioni delle navi di Sahura è possibile proprio vedere l’albero smontato e poggiato su di un cavalletto posto a poppa . La vela era alta e stretta e si assottigliava leggermente verso il fondo.
A partire dalla VI Dinastia vi furono alcuni cambiamenti: la vela iniziò ad essere più ampia, raggiungendo una forma rettangolare. Le navi dell’Antico Regno erano governate da uno o più governali, manovrati a mano e sospesi al di sopra dei quarti. Più o meno lo stesso sistema era adottato nel Medio Regno. Sempre nel Medio Regno, l’albero bipode scomparve e fu rimpiazzato da un albero a palo singolo che si configgeva attraverso il ponte fin sottocoperta, sulla carena. Esso era sostenuto, a livello del ponte, da un singolo, doppio, o anche triplo bracciolo, e poteva essere smontato, quando non in uso, e riposto su una sorta di scalmiera a forcella. Inoltre l’albero si era spostato più vicino alla zona mediana della nave il che sembra suggerire che si facessero tentativi di usare un vento che soffiava al giardinetto.
Nel Nuovo Regno, invece, i cambiamenti diventano notevoli. La carena delle navi, che vediamo, ad esempio, nei rilievi di Deir el Bahri, è decisamente più profonda di quella delle navi di Sahura, per esempio. Essa era anche molto più aerodinamica. La tolda aveva interruzioni a prua e a poppa, laddove apparivano dei piccoli mezzi ponti lievemente sollevati e protetti da balaustre.

A differenza degli usuali ornamenti terminali, a prua e a poppa, la prima finiva con un solido pezzo di legno a
forma di lama, mentre la poppa si curvava graziosamente verso l’interno, terminando con una decorazione a forma di fior di loto. Forse ciò aveva lo scopo di compensare il pericoloso mare di poppa che poteva irrompere sulla poppa della nave e spingere la sua murata all’interno. Si può notare che è ancora mancante una vera e propria chiglia per cui la funzione di rafforzamento longitudinale è ancora svolta dal cordame incurvante[5].
La nave del Nuovo Regno veniva condotta tramite un sistema di pilotaggio composto da due larghi remi montati su ciascun quarto. I loro fusti venivano fissati a puntelli forcuti e venivano assicurati non solo tramite semplici funi, ma anche per mezzo di forti trefoli di corda, mantenuti sempre in tensione e fissati a loro volta, ad una trave trasversale sporgente sulla quale erano infissi anche i puntelli. I remi venivano manovrati tramite lunghe barre verticali, leggermente curvate e conficcate nei loro fusti.
E se facessimo un confronto?
Dopo questo rapido excursus, può essere interessante osservare, brevemente, quale possa essere il risultato di un confronto fra un’imbarcazione egiziana ed una che appartenga a qualche altra cultura coeva, che fosse effettivamente impiegata per viaggi commerciali.
Per quanto riguarda le navi egiziane, converrà prendere ad esempio quelle che, sotto molti aspetti, rappresenterebbero una sorta di “eccellenza” costruttiva, il prototipo più evoluto, ovvero le navi raffigurate sui rilievi del tempio di Deir el Bahari. E’ ben noto che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non sia stata ancora rinvenuta, né in parte, né tanto meno per intero, una nave egiziana in un contesto sicuramente marittimo. E’ necessario, dunque, basarsi esclusivamente sui dati testuali e figurativi, se si volesse realizzare un modello ispirato a quelle imbarcazioni che salparono durante il regno della Regina Hatshepsut (1478-1458 a. C.) da poter mettere a confronto con altri natanti.
In un precedente studio della scrivente, sono state raccolte, appunto, tutte le testimonianze, testuali o iconografiche, che l’Archeologia ha potuto fornire, in merito alle dimensioni medie di una nave, al numero di persone dell’equipaggio e soprattutto alla tipologia e quantità dei prodotti trasportati e, con l’ausilio di software specifici utilizzati nella progettazione di imbarcazioni destinate all’uso reale, è stato realizzato un modello virtuale che presentava le seguenti caratteristiche:
- Lunghezza fuori tutto Loa = 30,00m
(Lunghezza F.T: la distanza fra le perpendicolari condotte dai punti più sporgenti di prua e poppa) - Larghezza massima fuori ossatura B= 6,00m
(Larghezza max. F.O.: ingombro trasversale massimo della nave)

A questo modello sono stati applicati tutti i parametri che servono a realizzare la documentazione corredata a qualsiasi progetto navale, e che riguardano la capacità di carico e la resistenza dello scafo. Lo studio aveva portato alla luce svariati dati interessanti, come ad esempio che con una tale struttura la capacità di carico era sensibilmente dipendente dalle condizioni atmosferiche affrontate, ma anche che la nave poteva raggiungere notevoli velocità (fino ad un massimo di 12 nodi, sempre in presenza di condizioni meteo favorevoli).
Quanto al momento prendiamo in esame, però, è solo la lunghezza e la larghezza di questa ipotetica imbarcazione, al fine di confrontare queste misure con quelle di altri natanti. Se volgiamo il nostro sguardo verso il Mediterraneo, possiamo fare riferimento al ben noto relitto di Ulu Burun[6], trovato nel 1982 in Turchia, a soli 50 m dalla costa, e studiato dal 1983 al 1994 dall’Institute of Nautical Archaeology. La datazione di questo relitto, di probabile provenienza Siro-Palestinese, è stata fatta risalire fra il XV e la prima metà del XIV sec. a.C. (Tarda Età del
Bronzo) grazie a una serie di elementi che illustreremo fra breve.
Esso ha restituito più di 10 tonnellate di lingotti di rame dalla caratteristica forma a pelle di bue (del tutto simili a quelli raffigurati dagli Egiziani in associazione ai popoli siriani e, in generale ai portatori di tributi[7]), insieme a numerosissime anfore e vasi per lo storaggio, oltre che a pani di vetro, gioielli, armi e più di 3 tonnellate di ancore di pietra. Sebbene il carico di questa nave sia ben conservato, le condizioni della carena sono molto frammentarie, ma da questi pochi frammenti e dallo studio della disposizione del carico, è stato possibile tentare una ricostruzione di come
apparisse l’imbarcazione, elaborata in un interessante lavoro di Shih-Han Samuel Lin per la Texas A&M University.
Da quanto rimaneva della carena è stato possibile verificare che i torelli (ovvero i corsi di fasciame immediatamente connessi alla chiglia, quindi i più robusti), erano attaccati alla chiglia da un sistema a mortase e tenoni, usato allo stesso modo per collegare gli altri corsi di fasciame. Ogni mortasa sembrava misurare 7 cm di larghezza e 17 cm di profondità. I tenoni sono assicurati con pioli di 2,2 cm di diametro, per evitare che le assi si smontassero. La chiglia e il fasciame pare fossero realizzati con legno di abete, mentre i tenoni e i pioli sarebbero in legno di quercia[8]. Sembra
inoltre, che lo spessore della chiglia si assottigliasse man mano verso la parte mediana, mentre protrudeva verso l’esterno procedendo verso la prua e verso la poppa, inoltre le assi del fasciame si facevano più strette[9].
E’ interessante notare che, al contrario di quanto accade solitamente per una chiglia, quella del relitto di Ulu Burun si protende maggiormente verso l’interno dell’imbarcazione che verso l’esterno. Questa caratteristica sembra essere comune alle navi illustrate nei rilievi del tempio della Regina Hatshepsut: sebbene non sia possibile avere una chiara illustrazione della forma della chiglia, dalle svariate ricostruzioni, operate da studiosi diversi nel corso degli anni, essa doveva essere rappresentata da una semplice trave più grande delle altre, ma non sporgente verso il basso. Per la ricostruzione della forma della carena del relitto di Ulu-Burun, gli studiosi hanno confrontato gli scarsi resti rinvenuti con le raffigurazioni di imbarcazioni definite come siro-cananee, trovate nelle tombe egiziane più o meno contemporanee all’epoca di datazione del relitto.

Dipinti della tomba di Kenamun, della XVIII Dinastia – Wachsmann ©
Fra queste spiccano i dipinti della tomba di Kenamun, della XVIII Dinastia, nei quali vengono mostrate imbarcazioni dotate di un singolo albero, posto quasi a metà nave, sorreggente una vela quadrata, la cui carena termina con due alte estremità, ed aventi due remi timonieri come sistema di pilotaggio[10]. E proprio a queste raffigurazioni si è ispirato Shi-Han Samuel Lin per la sua ricostruzione, che, infine, ha prodotto una carena lunga 15 m, larga 5, e profonda 2.

I calcoli da lui effettuati hanno permesso di stabilire che una carena di queste dimensioni fosse in grado di
trasportare un carico che è stato stimato da un minimo di 20 tonnellate ad un massimo di 34.3 (considerando l’abbondante carico rinvenuto, più l’eventuale carico di tipo deperibile, o quello andato perduto), il tutto mantenendo un sufficiente bordo libero, che permettesse a sei passeggeri di muoversi liberamente senza compromettere la stabilità del natante[11]. Per quanto riguarda la datazione di questo relitto, si sono rivelati molto utili i confronti con le
informazioni contenute nelle tavolette, facenti parte dell’archivio della città di Akhetaten (l’odierna Tell el Amarna). E’ stata effettuata, infine, una datazione dendrocronologica su un pezzo di legna da ardere (o forse resti di un pagliolo, cioè una sorta di piano di calpestio posto sottocoperta), trovato all’interno del relitto, che ha fornito il 1305 a.C. circa, come data.
Risulta evidente che le somiglianze nella costruzione delle imbarcazioni egiziane e mediterranee di quel periodo, si limitano alla struttura della carena, che si avvaleva del sistema a mortasa e tenone, in cui solo una parte del fasciame veniva assicurato col metodo della cucitura. E’ interessante rilevare che, sebbene la nave di Ulu Burun abbia effettivamente trasportato un carico notevole attraverso le acque del Mediterraneo, sembra che non esista alcuna traccia, sia materiale, sia soprattutto figurativa, di un sistema paragonabile all’hogging truss.
La navigazione marittima: una testimonianza
Esiste una testimonianza, e risale anche all’Epoca faraonica[12]: si tratta di un testo accadico, facente parte della corrispondenza fra l’Egitto di Ramses II ed il regno di Hatti, che ha avuto luogo dopo la pace stipulata nel 21° anno di regno di Ramses II, quindi circa nel 1259 a. C. Il testo era conservato negli Archivi Reali di Boghazköy, ed è una lettera inviata da Ramses II ad Hattusili III.
In esso il faraone afferma che ha intenzione di inviare al suo alleato hittita una nave, seguita da un’altra l’anno successivo, ma non si limiterà a questo: egli afferma che invierà un piano di costruzione tracciato su di una tavoletta. Ramses raccomanda, inoltre, di effettuare prima un disegno delle navi che verranno inviate, per poter, poi, realizzare delle repliche di esse, ed essendo in possesso del piano di costruzione, il tutto dovrebbe essere semplice. Ultima, curiosa, raccomandazione del faraone (che a quanto pare è versato persino in carpenteria navale!) è quella di calafatare lo scafo con pece, all’interno ed all’esterno affinché esso non si sfaldi facendo colare a picco la nave nel mezzo
del mare (si, sembra proprio che adoperi il termine mare)[13].
Questa testimonianza risulta decisiva sotto molti aspetti, poichè:
- ci comunica che devono essere esistiti disegni, schemi, forse addirittura manuali, relativi all’arte della navigazione ed alla costruzione navale, solo non sono giunti fino a noi;
- se venivano adoperati piani di costruzione, la tecnica di costruzione navale doveva essere notevolmente avanzata, come dimostrato anche dal fatto che il re Hattusi avesse chiesto una nave costruita in Egitto, così come aveva chiesto altri aspetti dell’eccellenza egiziana, in altre missive che conosciamo, della corrispondenza diplomatica fra i due stati alleati;
- i principi basilari della tecnica di costruzione navale dovevano essere alla portata di tutti, far parte di un bagaglio di conoscenze comuni, così come oggi tutti posseggono una concezione, sia pur generica, del funzionamento di un’automobile.
E dunque, no…gli antichi Egiziani non erano affatto sprovveduti in fatto di navigazione e nulla avevano da invidiare o da farsi insegnare dai più famosi marinai del Mediterraneo, con i quali anzi condividevano alcune tecniche. Gli Egiziani erano senz’altro perfettamente in grado di recarsi, con cadenze quasi fisse, nel Paese di Punt, la loro meta preferita. Ma perché andavano in questo luogo? E soprattutto: dove si trova il Paese di Punt? Questa… è un’altra storia!
Note al testo
[1] Si rimanda all’approfondimento della Brown University
[2] BRADBURY, L., Kpn-boats, Punt Trade and a Lost Emporium, Journal of the American Research Center in Egypt, 33, 1996, pp. 37-60.
[3] JONES, D, Boats, University of Texas Press, 1995
[4] FAULKNER, RO., Egyptian Seagoing Ships, J.E.A., 26, 1941, pag. 5
[5] JONES, D., op.cit., pp. 51-55
[6] Per le informazioni relative alla scoperta e alle campagne di scavo seguenti: BASS, G. F.; A Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun (Kaş): 1984 Campaign, American Journal of Archaeology, Vol. 90, No. 3 (Jul., 1986), pp. 269-296; PULAK, C.; The Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun, Turkey: 1985 Campaign; American Journal of Archaeology, Vol. 92, No. 1 (Jan., 1988), pp. 1-37
[7] BASS, G.F., op. cit., pag. 276
[8] BASS, G.F., op. cit., pag. 275
[9] SHIH-HAN, S. L., Lading of the Late bronze Age Ship at Uluburun, Thesis Submitted to the Office of Graduate Studies of Texas A&M University in partial fulfillment of the requirements for the degree of MASTER OF ARTS, 2003 pag. 12
[10] BASS, G.F., op. cit., pag.293; vedi anche SHIH-HAN, S. L, op.cit., pag. 30
[11] SHIH-HAN, S. L, op.cit., pag. IV e pp.224-225
[12] POMEY, P., Le rôle du dessin dans la conception des navires antiques. A propos de deux textes akkadiens, in: MATHIEU, B – MEEKS, D- WISSA, M. (a cura di) L’apport de l’Egypte à l’histoire des techniques, (Bibliotheque d’étude, 142) IFAO, Le caire, 2006, pagg. 239-251
[13]per la traduzione vedi: EDEL, E., Die ägyptisch-hethitische Korrespondenz aus Boghazkoi in babylonischer und hethitischer Sprache, Band I-II, ARAW 77/1-2, Opladen, 1994