La scrittura geroglifica, a lungo rimasta misteriosa, fino a quando le mire politiche e strategiche del grande Napoleone non condussero alla fortuita scoperta di una stele, una grande lastra di basalto nero, incisa con iscrizioni in geroglifico, appunto, ma anche in demotico e soprattutto in greco. Questa lastra di basalto attrasse l’attenzione di un ufficiale francese, che stava lavorando all’ampliamento di un forte, nei pressi della cittadina di Rashid (che gli europei trasformarono in “Rosetta”) nel Delta Occidentale, il quale ne comprese, forse, l’importanza e la consegnò al suo generale. Poi attraverso una complicata serie di eventi, Jean François Champollion, grande studioso di lingue antiche ed orientali, riuscì a ricavare una sorta di alfabeto, e decifrò il mistero.
La scrittura geroglifica è composta da segni che possono avere due funzioni: una ideografica (quando un’immagine sta a significare proprio ciò che rappresenta) e una fonetica (quando i segni servono per precisare la lettura degli ideogrammi).
Esempio:
𓂋 segno che rappresenta una bocca stilizzata, è composto dalla sola lettera r e può avere valore ideografico (quando sotto compare un trattino verticale, usato come segno diacritico) e quindi essere tradotto con “bocca”, oppure può essere inserito dopo altri geroglifici con valore di complemento fonetico ( 𓉐𓂋 si trascrive – o più propriamente “traslittera”- pr, si legge (per convenzione) “per”, parola formata dal segno 𓉐 pr che significa “casa” + 𓂋 r usato qui come complemento fonetico per far capire meglio come leggere)
In genere i segni formati da un solo elemento, chiamati monolitteri, hanno funzione fonetica, e aiutano a comprendere come si pronunciano altri segni, come complementi fonetici appunto, e sono quelli che troviamo sotto il nome di “alfabeto egiziano”, che però non possiamo considerare un vero alfabeto, sia perché al loro interno non vi sono delle vocali vere e proprie, sia perché vengono usati quasi sempre insieme agli altri segni ideografici.
Esistono poi anche segni formati da due, tre o quattro elementi, chiamati bilitteri, trilitteri e quadrilitteri.
Esempio:
𓅬 segno bilittero che raffigura un’oca, ma è composto da due lettere s3 che si legge “sa” (per convenzione) e si traduce “figlio”.
Abbiamo detto che i 24 segni monolitteri che vengono chiamati impropriamente “alfabeto” non annoverano delle vere e proprie vocali, quanto piuttosto dei geroglifici che avrebbero potuto avere un suono simile a delle vocali, e per comodità vengono letti come tali e sono:
- 𓄿 3 – si legge come una “a”;
- 𓇋 ỉ – si legge come una “i”;
- 𓇋𓇋 y – si legge come la “y”;
- 𓂝 ՛ – si legge come una via di mezzo fra la “a” e la “o”;
- 𓅱 w – si legge come una “u”.
In tutti gli altri casi in cui non compaiono questi segni e ci troviamo di fronte ad una sequenza di consonanti, è stato deciso per convenzione di inserire una “e”, completando così le “nostre” vocali (esempio 𓄤 traslitterato nfr , che significa “bello”, si legge abitualmente “nefer”) e questo perché purtroppo si è persa la conoscenza di quale fosse la reale pronuncia dell’egiziano antico.
E fin qui la cosa è già abbastanza complicata, vero? Gli Egiziani, però, erano un popolo molto incline alla praticità, per questo decisero di fare in modo che non vi potessero essere fraintendimenti o situazioni in cui una parola, per la quale venissero usati gli stessi segni adoperati in altre parole, potesse creare confusione. Per capire meglio, pensiamo alla parola “riso”, in italiano: essa può significare sia l’atto del ridere che l’alimento. Per risolvere il problema gli antichi egiziani hanno stabilito di porre, al termine della parola, un ulteriore segno che chiarisse in modo inequivocabile il significato, indicando, visivamente, il campo semantico di appartenenza e che non veniva pronunciato.
Esempio:
𓏞 questo segno (che raffigura una tavoletta con inchiostro e un pennino, gli strumenti dello scriba) si traslittera sš e si legge “sesh”. Se troviamo il segno sš seguito da questo 𓏜 (un rotolo di papiro con un nastrino a tenerlo chiuso) in questo modo: 𓏞𓏜 dovremo tradurre “scrivere”. Ma se lo troviamo seguito da questo segno 𓀀 così: 𓏞𓀀 allora dovremo tradurlo “scriba”.
Il simbolo aggiunto al termine della parola, per chiarirne il significato è stato chiamato “determinativo” dagli studiosi, perché appunto determina il campo semantico della parola in questione. Proprio come se noi italiani, dopo la parola “riso” disegnassimo una bocca sorridente, oppure dei chicchi di riso, per fare in modo che chi legge non sia tratto in confusione.
Ma… un momento… non lo facciamo già in realtà?
Quando dal cellulare, o con una email, scriviamo un messaggio ad un nostro amico e vogliamo chiarire come ci sentiamo, oppure rafforzare un concetto che abbiamo già espresso a parole, non inseriamo forse un’immagine, che da sola esprimerebbe già l’idea alla quale è associata?
Nate dall’esigenza di inserire precisazioni emotive immediate in testi che altrimenti potevano risultare troppo aridi, le “emoticon” (fusione di emotion icon) hanno un’origine quasi altrettanto misteriosa di quella dei geroglifici. Superando le teorie svariate e bizzarre che vorrebbero addirittura attribuirne la paternità ad Abramo Lincoln, la più probabile nascita risale al 1982 ad opera di Scott Fahlman. E se in un primo momento venivano utilizzati, con molta versatilità e fantasia, i segni grafici e di interpunzione in genere (e i nostalgici degli anni ‘90/2000, e degli indimenticabili SMS, sanno bene di cosa parlo!) in seguito si è passati dalle emoticon alle “emoji”, parola di origine giapponese che significa proprio “pittogramma”: una versione sempre più antropomorfa che mostra piccoli visi (da cui il nostro “faccine”) e più avanti proprio figure umane intere impegnate in gesti, attività, impieghi. Poi sono comparse nei nostri telefonini moltissime immagini, che riproducono oggetti di uso quotidiano, cibi, bandiere, simboli, mezzi di trasporto.
Inevitabilmente il pensiero corre alla lunga e dettagliata lista dei segni adoperati nella scrittura geroglifica.
Vi va di giocare, creando un ponte impossibile fra le nostre emoji e gli affascinanti geroglifici?
E allora vediamo:
🦵𓂾 Ecco il geroglifico della gamba traslitterato con rd e tradotto con “piede”, ma usato più spesso come determinativo, e in prevalenza per verbi che esprimono movimento.
👂𓂈 L’orecchio, tipico determinativo della parola che indica questa parte anatomica.
👁️ 𓁹L’occhio, un ideogramma traslitterato con ỉr o talvolta m3 (“ma”), usato molto spesso come determinativo per indicare concetti legati agli occhi, come “guardare”, “cieco”, “piangere”, ecc.
🤰𓁑 Donna incinta, determinativo di “concepire” ed “essere incinta” (𓃀𓂓𓁑𓏜 bk3, “beka” – alla fine troviamo il rotolo di papiro, determinativo usato per indicare i verbi).
🤱 𓁔 Donna che allatta, determinativo anche per parole come “balia” e “madre adottiva”.
🕺 𓀤 Uomo che balla, determinativo della parola “danza”, ma anche delle parole che implicano gioia, giubilo.
🧎♂️ 𓀀 E infine il determinativo di “uomo” per eccellenza, usato anche per declinare al maschile.
Ci sarebbero altri paragoni da poter fare, ma vorrei mostrare anche quelli relativi agli oggetti e agli animali.
⚖️ 𓍝 Semplice determinativo per “bilancia”.
🔪 𓌪 Un coltello, usato per completare la parola 𓂧 𓋴𓌪 ds, “des”, “coltello”, ma anche per specificare concetti come “essere affilato”, “tagliare”, “macello”.
🪓 𓌏 Un’ascia.
🐎 𓃗 Segno usato per indicare il cavallo, lo stallone.
🐖 𓃟 Determinativo di “maiale” 𓂋𓂋𓇋𓃟 rrỉ, “reri”.
🐈⬛ 𓃠 Gatto: 𓏇𓇋𓅱𓃠 mỉw, “miu”.
L’elenco potrebbe essere ancora più lungo: le corrispondenze sono molte e, soprattutto per gli animali, i geroglifici sono dettagliatissimi e molto specifici, come è naturale, dal momento che si tratta di un sistema di scrittura che rispecchia una lingua e non di semplici immagini giocose, di cui non v’è un bisogno reale.
Infatti abbiamo un po’giocato e non ce ne vogliano gli egittologi “duri e puri”. Tuttavia le riflessioni che possiamo trarre da questo divertissement forse sono interessanti: innanzitutto appare evidente che la scrittura geroglifica è abbastanza funzionale ed efficace, l’unione di ideogrammi adoperati come tali insieme a complementi fonetici che ne chiariscono la pronuncia e a determinativi che individuano il campo semantico della parola, effettivamente non favorisce i fraintendimenti, che invece talvolta possono sussistere nella nostra lingua e in altre moderne. Poi, abbiamo forse la dimostrazione che a dispetto di secoli trascorsi, di modalità di vita radicalmente cambiate e di sistemi di valori diversi, i modi in cui l’uomo comunica con i suoi simili sono sostanzialmente fondati su modalità affini: un’immagine che sostituisce (per velocizzare lo scambio di informazioni) o che arricchisce le nostre parole è ancora un sistema valido, vero? 😜