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Intorno alla moderna iconoclastia

Dopo aver letto l’editoriale del Dott. Giulio Claudio Barbiera, riguardo l’abbattimento delle statue durante li manifestazioni BLM, mi piacerebbe esporre il mio personale pensiero compiendo un passo in più rispetto alle considerazioni fatte.

Come tutti sappiamo le ondate di proteste in America non si placcano, ma anzi, riaccendono vivacissime discussioni riguardo alle numerose contraddizioni di cui l’America è fatta. Rimanendo su quella dei diritti civili, vien da sé che anche l’arte si debba interrogare su quello che ha rappresentato in passato e quello che rappresenta per noi oggi.

È notizia di poche ore fa che il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump abbia espresso il proprio diniego a rinominare alcune basi militari americane con nomi che non c’entrino nulla con la fazione sudista coinvolta nella guerra di secessione del 1861-1865. Anche l’imbrattamento e la bloccata rimozione della statua del generale confederato Edward Lee, sta facendo fare i conti agli americani con un’arte dedicata esplicitamente a politici e militari dal passato schiavista e razzista, pronti a negare qualsiasi diritto alla popolazione minoritaria afroamericana.

Queste domande ovviamente interessano anche l’Europa e prova ne è l’abbattimento della statua dello schiavista di Bristol Edward Colston, – macchiatosi di aver marchiato a fuoco, trasportato e venduto centinaia di schiavi neri durante la tratta atlantica. Ancor più contingente è il caso dell’Italia, dove simboli del ventennio fascista sono pressoché ovunque – per mia esperienza personale proprio la scorsa domenica mi è capitato di scorgere un fascio littorio in Darsena, sui Navigli, riaperti dal 2015 dopo importanti lavori di ristrutturazione in vista di Expo 2015.

Passando alla città di Roma non ne dovremmo neanche parlare: è quindi pacifico che questo passato scomodo non può e non deve essere cancellato, ma – ed è qui che il mio intervento vuol ampliare la riflessione di Giulio Claudio – necessita di un profondo ragionamento che contestualizzi un determinato segno e che, finalmente, instauri un rapporto dialettico e non un discorso esclusivamente unilaterale.

Faccio miei due felicissimi esempi che riescono a rappresentare questo mio pensiero.

Il primo riguarda Gianni Rodari che, in vista delle Olimpiadi del 1960 tenutesi a Roma, si interrogava sulle scritte inneggiati il fascismo nel Foro Italico. Sulle pagine di Paese Sera scrisse:  “Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte”. Si riferiva ovviamente alla profondissima ferita che la dissennata politica fascista lasciò in Italia.

Nel 2019 il festival di arti performative Short Theatre, che sapientemente interroga i “linguaggi che cambiano, immaginando nuove affinità, oltre i confini disciplinari, generazionali, geografici e culturali”, è intervenuto nel palazzo che un tempo ospitava la Casa della Gioventù del littorio (GiL Roma), inaugurato nel 1937 dopo l’inutile guerra sanguinaria volta alla conquista dell’Etiopia. In questo palazzo in stile razionalista studiose postcoloniali, organizzatori del festival e artisti si sono interrogati sull’attuale utilizzo della sala dove si erge un’enorme cartina dell’Africa in cui tutti gli stati sono stati cancellati, ad esclusione di quelli conquistati dal regime (Etiopia e Libia), insieme all’elenco delle città occupate e da un enorme M significante Mussolini.

Questo immenso e feroce vuoto è stato riempito attraverso il dialogo: sono state proiettate frasi, messi cartelli e indetti pubblici dibattiti.

Ecco come, secondo me, un passato scomodo diventa fecondo per i nostri tempi e per le generazioni future. Il fatto di leggere la storia in senso unilaterale, cioè quella di inserire l’opera in quella fastidiosa definizione dello spirito del tempo non basta; bisogna leggerla anche attraverso i nostri valori che devono essere quelli del dialogo, dell’inclusione e della relazione.

Ecco che sradicare la statua sull’onda della rabbia, imbrattare di rosa Indro Montanelli non basta, ma ci vuole relazione, o come diceva Rodari “completare le tracce”. Dire che Colston era un filantropo a mio avviso non è sufficiente a sollevarlo dalle sue nefandezze, perché tutti sanno che l’arte e la filantropia lavano i soldi sporchi, e – aggiungerei io – anche le coscienze. I gerarchi nazisti piangevano dopo aver ascoltato Wagner, ma subito dopo non esitavano un istante a sterminare milioni di ebrei.

Enrico degli Scrovegni edificò la famosa cappella affrescata da Giotto per comprarsi il paradiso e far perdonare il padre Rainaldo dall’esercizio dell’usura; eppure Dante non esitò a metterlo nel cerchio settimo dell’Inferno dedicato agli usurai “E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco”…

Forse, come auspicato sulle pagine di Internazionale dalla scrittrice italosomala Igiaba Scego, è tempo di commemorare gli oppressi, di innalzare più statue in memoria di chi è stato oppresso e di chi ancora è vittima di prevaricazioni e violenze.

Bibliografia

📖 https://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2020/06/09/omicidio-floyd-statute-razzismo
📖 https://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2020/06/09/tracce-passato-colonialismo-razzismo-fascismo
📖 https://www.bbc.com/news/world-us-canada-53005243
📖 https://ladante.it/DanteAlighieri/hochfeiler/inferno/person/scrovegn.htm

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a cura di

Simone Bonaccorsi

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