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Sulla Ferragni e il nostro rapporto con la cultura

Ormai la storia della Ferragni agli Uffizi la conosciamo tutti, non c’è bisogno che vi faccia anche io lo spiegone.

Quello che vorrei fare oggi è usare la polemica Ferragni, che polemica non è, per parlare del rapporto degli italiani con l’arte e la cultura e, più specificatamente, di come dovremmo, come paese, scrollarci di dosso questa concezione di arte come una cosa sacra e perfetta e degli artisti come esseri puri e capaci di comunicare con l’iperuranio o con Dio.

Le arti e in generale la cultura umanistica hanno quindi, secondo il parere di chi scrive, un problema di immagine. La Storia, la Filosofia e le Arti sono viste come materie che possono essere conosciute, capite e soprattutto apprezzate solo da chi ha studiato per anni il Rinascimento, Raffaello, la storia d’Italia, l’archeologia, le filosofie greche, etc. Certo, più si conosce un argomento e più lo si apprezza ma l’arte è anche semplice bellezza, che può essere goduta da tutti, soprattutto nella nostra civiltà moderna, la prima ad essere riuscita potenzialmente a dare la possibilità di sapere e sperimentare tutto ciò che abbiamo attorno. La conoscenza è alla portata della stragrande maggioranza della popolazione e le più grandi opere mai realizzate dall’uomo possono essere godute da tutti, cosa mai accaduta in epoche passate. Un controsenso se poi spaventiamo le persone meno avvezze alla storia e all’arte con questa immagine di cosa elitaria e lontana dalla vita di tutti i giorni.

Senza scadere nella banalizzazione l’arte va quindi normalizzata, bisogna toglierle quest’aurea di perfezione e farla tornare nel mondo reale, lei e i suoi artefici. Bisogna che tutti siano ben predisposti nei suoi confronti, dagli anziani, ai lavoratori, fino ai più piccoli. E ciò lo si può fare mostrando il nostro patrimonio culturale non solo in occasioni di cultura, ma anche di moda, spettacolo, intrattenimento, etc, perché è parte della vita, come qualsiasi altra cosa, va resa comune, va avvicinata all’uomo comune. Questo è un concetto banale che si è sempre sfruttato, come lo sfruttò Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano, che, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, raggiunse nuovo pubblico andando fisicamente dal nuovo spettatore, montando tendoni teatrali nelle periferie, nei quartieri dormitorio degli operai per raggiungere chi non poteva o non voleva andare in teatro in centro città. Fu il teatro ad andare dal nuovo pubblico, intercettandone la curiosità, come testimoniato nel ‘69 da Carlo Fontana, sull’Avanti!, che scrive:

…e vedi attorno al tendone un nugolo di ragazzini, vecchiette, giovanotti stupefatti come se guardassero una capsula da cosmonauti piovuta dal cielo. […] Chi non ha fatto una capatina in questi giorni alla tenda-circo dove il Comune e il Piccolo danno luogo a uno dei più interessanti esperimenti teatrali del nostro tempo, non può rendersi conto di un fenomeno che ha dello sbalorditivo. […] per noi, resta ormai un fatto estremamente rilevante l’aver saputo accendere nel deserto dei sentimenti di oggi, inesistenti o drogati, un pizzico di interessato stupore per qualcosa che può sollevarci al di sopra dell’arrabattarsi quotidiano.

Va beh, ma quindi sta Ferragni?

Partiamo dalla didascalia del post, era un po’ fuori luogo? A parer mio sì, una sviolinata che si potevano evitare.

Hanno sbagliato a ospitare e mostrare la Ferragni all’interno del museo? Assolutamente no, ha fatto pubblicità, ha fatto vendere un 27% in più di biglietti, ma soprattutto, cosa più importante, fondamentale per la sopravvivenza dei nostri musei e che non viene mai fatta e dio solo sa quando si farà, ha mostrato gli Uffizi anche ad un pubblico non sensibilizzato all’arte e alla storia. I nostri musei sono poco visitati, sono considerati noiosi ai più, queste persone, non stupide, non ignoranti, ma solo non avvezze a certe cose, vanno attratte e convinte a provare l’esperienza del museo. E un ragazzino o un professionista totalmente disinteressato all’arte non lo attrai con la pubblicità di una mostra di paesaggisti del ‘600, ma con qualcosa che è più vicino al suo mondo; quindi con i film o le serie tv girate nei musei, con i video musicali (vedi quelli di Mahmood a Torino e Beyoncè e Jay-Z al Louvre) fino anche ai post della Ferragni.

Queste cose sono solo un primo passo, un’esca, una rottura dell’aurea elitaria della cultura, sono un promemoria, “esistono i musei e ci vanno tutti, anche i cantanti o i personaggi che segui”; poi ovviamente sarà compito del museo, delle guide e delle scuole affascinare e far entrare qualcosa nella mente delle persone, questo non è il compito delle esche.

Sto dicendo che i musei dovrebbero quindi parlare due linguaggi, anche con l’utilizzo di cartelloni differenti, perché no: uno indirizzato a chi ha già delle conoscenze sui temi trattati dal museo, e un altro per chi invece non ne ha. Se io non conosco nulla della storia del ‘400 fiorentino tutti i nomi dei duchi, dei papi, o dei mecenati, non mi rimarranno mai in testa e non faranno altro che annoiarmi, convincendomi a non tornarci più al museo; quello che voglio sapere, invece, è solo una chiave di lettura di ciò che ho davanti e qualche particolare che mi affascini.

Concludendo specifico che tutto ciò che ho detto vale per le discipline umanistiche come per quelle scientifiche ovviamente.

Mi vengono in mente dei video di Sgarbi che parla di Leonardo o Raffaello, lui lì non solo racconta la storia dell’arte, ma affascina e scuote l’ascoltatore.

E ora pensate a certi musei o certe lezioni soporifere subite in università o a scuola.

Bibliografia

💻 www.lastampa.it
💻 www.corriere.it
💻 www.ilfattoquotidiano.it

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a cura di

Giulio Claudio Barbiera

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