È notizia di pochi giorni fa che il tanto cercato, e agognato, affresco dedicato alla Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, che avrebbe dovuto trovarsi nel Salone del Cinquecento a Palazzo Vecchio di Firenze, non esiste.
Prima di analizzare il risultato abbiamo però bisogno di una panoramica storica e artistica.
Sappiamo infatti che prima di spostarsi alla corte milanese di Ludovico il Moro, stufo della troppa cultura neoplatonica circolante nella Firenze medicea, Leonardo lavorava per l’élite colta di Firenze. Artista conosciuto e apprezzato, nel 1503 venne incaricato da parte del Gonfaloniere della Repubblica Fiorentina, Piero Soderini, di rievocare nella sala dell’ex Maggior Consiglio il celebre episodio della battaglia che vide i fiorentini contrapporsi alle truppe milanesi dei Visconti nel 1499; di fronte, a farle il canto, Michelangelo Buonarroti avrebbe dovuto dipingere l’altra famosissima battaglia, cioè quella di Cascina.
Dalle fonti in nostro possesso apprendiamo effettivamente che Leonardo, e Michelangelo, realizzarono i cartoni preparatori, dai quali vennero tratte copie che noi oggi, fortunatamente, ancora possediamo.
Nel caso che ci interessa, possediamo la scena della Disputa dello Stendardo, cioè il gruppo di armigeri che violentemente lotta per il possesso dell’insegna. Sono quattro cavalieri che con estremizzata dinamicità duellano, vi è poi un soldato a terra che si difende con lo scudo dall’impeto degli animali, mentre altri due sono riversi a terra tra le gambe dei cavalli imbizzarriti. La versione più conosciuta è quella che tradizionalmente viene riferita a Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640) e conservata al Louvre: di altissima qualità artistica si possono osservare moltissimi dettagli, e per questa ragione è considerata la miglior sintesi di molte altre versioni circolanti.
A questo punto la vicenda artistica inizia a diventar confusionaria: alcuni pensano che Leonardo abbia iniziato negli anni successivi a trasferire il cartone su parete, non concludendo il lavoro per problemi tecnici. Infatti, sperimentando una nuova tecnica ad olio simile alla pittura ad encausto, il colore una volta seccato con il caldo dei bracieri si sarebbe staccato e compromesso. Infine, l’artista non avrebbe neanche completato l’opera perché sospese i lavori e partì alla volta di Milano tra il 1505 e il 1506.
Altri, al contrario, pensano che l’artista non abbia neanche iniziato ad affrescare, o comunque pensano che di tracce di questo lavoro non ce ne siano affatto, e che l’attuale affresco del Vasari sia l’unico strato pittorico presente sulla parete.
Sta di fatto che durante i lavori di rifacimento del Salone voluti da Cosimo I de’ Medici, l’artista aretino dovette coprire i supposti lacerti e procedere a dipingere l’attuale Battaglia di Sangallo, lasciando ai posteri l’ingrato compito di dover sbrogliare l’enigma – se così si può chiamare – della frase cerca trova, dipinta dallo stesso Vasari su uno stendardo portato dai ribelli fiorentini alleati coi senesi contro l’esercito mediceo. Insomma, una specie di caccia al tesoro protrarsi fino a noi.
Leonardo piace a tutti, questo ormai lo hanno capito in molti; basti solo veder il record raggiunto per il Salvator Mundi venduto all’asta per 450 milioni di dollari – probabilmente neanche di Leonardo. Visto che si parla dell’eclettico Leonardo, nessuno si dimenticò dell’affresco sepolto sotto le pareti del Salone. Ecco che nel 1968 Alessandro Perronchi e Carlo Pedretti richiamarono l’attenzione sulla vicenda e nel 1976 l’Ing. Maurizio Seracini iniziò la campagna di indagine. Dopo una battuta di arresto nel 2005, in occasione del cinquecentenario del 6 giugno 1505, giorno in cui Leonardo iniziò a dipingere, Saracini annunciò che nel lato est era presente un’intercapedine posta tra il muro di pietra antico e il muro di mattoni vasariano, che presentava del colore probabilmente dell’epoca di Leonardo. Nel 2011 il team scientifico iniziò così a perforare il muro per raccogliere campioni di tracce che, in un secondo momento, dovevano esser mandate all’Opificio delle Pietre Dure per analisi più approfondite.
Ad oggi però Cecilia Frosinini, direttrice del dipartimento restauro pitture murali dell’Opificio delle Pietre Dure, ha spiegato che “uno di quei tre famosi prelievi, tirati fuori bucando il lavoro del Vasari, fu magnificato come il ritrovamento del ‘Nero della Gioconda’. Ma non esiste alcun nero tipico di Leonardo. Il punto è che questi tre celebri prelievi poi sono scomparsi: l’Opificio voleva analizzarli a fondo, ma non ci sono mai stati dati”.
Grazie alla casa editrice Olschki, oggi possiamo finalmente mettere un punto alla vicenda e studiare i risultati che hanno dedotto ricercatori che si sono occupati del caso. Nel volume scientifico “La sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo lavori per la realizzazione del grande affresco in Palazzo Vecchio” s’apprende che i lavori si interruppero prima della fase pittorica.
Nell’auditorium Vasari delle Gallerie degli Uffizi a Firenze, Francesca Fiorani, docente di storia dell’arte moderna dell’University of Virginia, ha detto che “I nuovi studi ci hanno permesso di ridirezionare la ricerca… siamo passati dalla domanda fondamentale ‘dove sta la Battaglia di Anghiari’ a una domanda diversa, ovvero ‘c’è stata la Battaglia di Anghiari?’. Ecco, a questa domanda si può dare una risposta basata sulla rilettura dei dati noti e sullo studio di nuovo dati: Leonardo non ha mai dipinto la Battaglia su quel muro”. Inoltre “L’esistenza dei cartoni preparatori è provata e documentata”, ma “quella del dipinto, che conosciamo solo grazie a copie di altri fino ad oggi pervenute, invece no. I materiali che vennero forniti a Leonardo erano solo funzionali al cartone e alla preparazione della parete su cui avrebbe dovuto essere realizzato. Ma la preparazione stessa del muro andò male, e dunque la Battaglia non fu mai dipinta”.
Peccato, come spesso accade nel bel paese, veder seguire fantasmi su idee bizzarre e strampalate. Superfluo anche ogni commento riguardo alla spesa di denaro ed energie per aver risultati inconcludenti. Vien ancor più naturale stringere a sé, quasi a protezione e conforto, quei librettini ricchi d’ingegno scritti da Tomaso Montanari. Verrebbe anche da dire: a cosa serve Leonardo?