Nell’ormai lontano 2016, in Toscana, in provincia di Arezzo, due cacciatori avvertirono diligentemente le autorità di aver notato ciò che sembrava essere un fossile, il quale, probabilmente a seguito di piogge intense o modifiche nel terreno, fuoriusciva parzialmente alla luce del sole. Sono stati eseguiti i primi sopralluoghi archeologici ed è stato riscontrato che si trattava effettivamente di un fossile di importanti dimensioni.

Iniziò perciò una campagna di scavi con lo scopo di portare alla luce i reperti individuati, cercarne di nuovi e studiare la stratigrafia del terreno, fondamentale per la datazione dei resti. Ciò che ne risultò fu la definizione di ben 15 livelli stratigrafici del terreno e 33 resti in un’area di appena 12mq. I fossili più importanti furono comunque il cranio e un’ulna di un Mammut, esemplare risalente a un’età compresa tra 1,77 e 0,75 milioni di anni fa.

Quando si parla di Mammut vengono subito in mente immagini di imponenti elefanti lanosi con sproporzionate zanne (o per meglio dire, “difese”) e sterminate distese di ghiaccio, un po’ come nei film “L’era glaciale”, ma quell’immagine è più ascrivibile al Mammut Lanoso, quello ritrovato nel Valdarno è invece un Mammuthus meridionalis. Mediamente questa specie arrivava sino a 4m di altezza al garrese, con un volta cranica e difese ricurve verso l’alto. In particolare, nel caso del nostro fossile si tratta di un esemplare maschile di notevoli dimensioni quindi probabilmente intorno ai 4m di altezza, quanto un elefante africano.

Oggi tutte queste informazioni le sappiamo grazie a innumerevoli studi e ritrovamenti in tutto il mondo e grazie ad una fondamentale comunicazione tra esperti, a tal proposito è divertente osservare come la situazione fosse differente anche solo 200 anni fa, come testimoniato da John Murray nel suo Handbook for travellers in central Italy, dove, parlando della notevole quantità di fossili trovati in Valdarno, scrive:
“The Italian antiquaries, ignorant of natural history, and eager to connect everything on this road with Hannibal, at once proclaimed them to be the remains of the Carthaginian elephants.”
Viene da chiedersi se, piuttosto che ignorant, non fossero piuttosto skilled sellers.
Gli scavi ed il restauro sono stati finanziati da una campagna di crowdfunding, nella quale ai partecipanti venne data la possibilità di scegliere anche il nome del Mammut, ad oggi è conosciuto più amichevolmente come Otello e lo potete osservare nel Museo Paleontologico di Montevarchi (AR).
Proseguendo nella lettura di questo articolo troverete l’intervista fatta alla restauratrice del cranio, Antonella Aquiloni, la quale, molto gentilmente, ha risposto ad alcune mie domande.

Intervista alla Restauratrice
Ha consultato altre figure professionali (es: biologo, archeologo) prima di lavorare sul cranio di Otello?
Ci sono stati quattro momenti di confronto, il primo, durante lo scavo, in cui ho avuto modo di confrontarmi con paleontologi, archeologi, restauratori ed ingegneri soprattutto per gli aspetti che riguardavano lo spostamento dalla zona di rinvenimento. Spesso i reperti di grandi dimensioni vengono puliti e consolidati nella superficie esposta e poi ribaltati in modo da poter lavorare tranquillamente anche nella parte sottostante. La posizione in cui si trovava il Mammuthus, la sua fragilità e l’idea originaria di lasciarlo appoggiato al terreno di ritrovamento ci hanno obbligato a trovare una soluzione specifica.
Un altro momento è stato durante la pulitura, quando si decise per un cambio di rotta e rimuovere tutto il terreno rimasto. In questo caso mi sono confrontata solo con restauratori e archeologi per capire come procedere arrecando il minor danno possibile al fossile.
Anche per il trasporto abbiamo dovuto confrontarci, questa volta con la Soprintendenza e la ditta edile che si sarebbe occupata di realizzare la base per spostare il reperto dalla zona di ritrovamento.
Infine la musealizzazione che ha richiesto la creazione di un gruppo di esperti (paleontologo, architetto, ispettori della soprintendenza, ingegnere, direttrice del museo) in modo da poter definire come esporre al meglio Otello al pubblico.
È fondamentale il confronto e lo scambio di idee tra professionisti. Ogni esperienza è diversa e a volte anche solo parlando può nascere l’idea che permette di risolvere la situazione.

Come si è svolto il trasporto del reperto dal terreno di ritrovamento al luogo attrezzato per il restauro?
Il fossile si trovava alla base di una balza ma per arrivare a fondovalle c’era una discesa con una pendenza considerevole che impediva ai mezzi pesanti di avvicinarsi al reperto. Abbiamo quindi deciso di inserire delle barre di metallo nel terreno al di sotto della fascia stratigrafica in cui potevano essere presenti altri fossili e lasciar scivolare il tutto fino al fondovalle, sfruttando il suo stesso peso.
Ovviamente Otello era stato debitamente protetto con del poliuretano espanso. A quel punto con una gru è stato sollevato, posato sul pianale di un camion e trasportato in un magazzino a San Giovanni Valdarno dove si sono svolte pulitura e consolidamento.

Come si è svolta la rimozione del pane di terra in cui era avvolto il cranio?
Il pane di terra su cui appoggiava Otello, come già accennato, doveva inizialmente rimanere. In prima battuta la pulitura si è perciò concentrata sulla parte superiore portando alla luce gran parte della superficie fossile ma lasciando la parte inferiore immersa nel terreno di ritrovamento. La pulitura è avvenuta in maniera progressiva con pennelli e bisturi senza l’uso di acqua o altre sostanze chimiche. Come consolidante ho applicato del polivinilacetato diluito in acetone.
Lasciare il pane di terra poteva essere rischioso per il reperto quindi con la direzione tecnica è stato deciso di rimuovere tutto il terreno. Prima di procedere oltre però abbiamo effettuato una fotogrammetria in modo da avere un modello tridimensionale sia di Otello che della stratigrafia del terreno di ritrovamento. Il Mammuthus non è stato ribaltato ma ho eliminato il materiale in eccesso in piccole zone in modo da inserire delle barre di metallo che sostenessero il peso e che mi permettessero di rimuovere tutto ciò che non era fossile.
La difesa destra mostrava una frattura quasi passante quindi qualsiasi spostamento avrebbe causato una sua rottura in maniera scomposta. Con la direzione tecnica abbiamo quindi deciso di eseguire un taglio controllato in modo da poter poi riunire le due parti perdendo la minor quantità di materiale possibile. Prima di effettuare il taglio le difese sono state irrobustite con stecche di legno e filo di ferro e sono stati presi dei punti di riferimento in modo da essere sicuri, a restauro ultimato, di riposizionare correttamente la parte separata. L’ultima zona di terra eliminata è stata quella sotto il cranio perché anche durante lo scavo era emersa la presenza in questa zona di un’ulna, riferibile per dimensioni allo stesso esemplare. Nelle fasi iniziali di pulitura sembrava integra ma purtroppo in realtà così non era.
Inoltre, la separavano dalla parte sottostante del cranio solo pochi millimetri che non permettevano il passaggio di nessuno strumento in grado di dividere le due parti senza arrecare danno. Il lavoro era quasi finito e l’elefante doveva essere portato al Museo Paleontologico di Montevarchi, sua destinazione definitiva, l’unica incognita era l’ulna. Otello doveva essere nuovamente sollevato e in quell’occasione l’arto molto probabilmente si sarebbe distaccato da solo a causa della gravità. Abbiamo preso tutte le precauzioni possibili ma il peso dell’ulna è stato decisivo e si è staccata definitivamente dal cranio.

Oltre alla rimozione del deposito superficiale è stato necessario effettuare puliture più profonde?
La pulitura è stata puntuale ma non abbiamo comunque voluto stravolgere il suo aspetto di reperto archeologico. Ho utilizzato pennelli e bisturi per la maggior parte della superficie. Solo in alcuni punti ho dovuto ricorrere ad un ablatore piezoelettrico per rimuovere delle incrostazioni particolarmente tenaci.
Essendo lei una restauratrice di opere lapidee e derivate, ha trovato delle differenze rispetto ai materiali a cui è solitamente abituata?
I fossili sono chimicamente delle rocce ma i materiali utilizzati per il loro restauro sono più simili a quelli utilizzati per il restauro della ceramica. La pulitura per i fossili provenienti dal Valdarno è da svolgere quasi esclusivamente in maniera meccanica. La loro delicatezza li rende molto complessi da restaurare e non è assolutamente paragonabile a quella dei reperti lapidei. I crani sembrano pesantissimi ed invece sono tra le parti più leggere e se la superficie esterna è integra sarà molto difficile arrecare dei danni durante le mie fasi di lavoro; le difese, al contrario, sono molto pesanti e sembrerebbero molto resistenti invece sono tra gli elementi più fragili ed hanno sempre bisogno di un occhio di riguardo ed una attenta osservazione per evitare l’insorgere di danni difficilmente riparabili.

Le ossa possono produrre particolari tipologie di sali, ve ne erano sul cranio di Otello?
I fossili non contengono più i sali contenuti nelle ossa, in compenso possono contenere quelli provenienti dal terreno di fossilizzazione. Proprio per questo motivo i reperti provenienti dal Valdarno non possono essere restaurati con l’uso di prodotti a base acquosa. Al loro interno infatti vi sono dei minerali contenenti zolfo che a contatto con acqua si trasformano in starkeite. Questo sale cresce internamente al fossile e quando arriva in superficie spesso è troppo tardi ed il reperto non può essere recuperato. Ad oggi su Otello non sono visibili tracce di efflorescenze né presenti né passate e, con il mio lavoro, dovrei aver scongiurato la loro comparsa futura.
Vi erano forme di distacco o decoesione?
Forme di distacco erano visibili fin dalle prima fasi dello scavo. Le radici di alcune piante si erano insinuate all’interno delle difese facendone aumentare il volume e creando delle fratture. La maggior parte di queste era comunque di dimensioni ridotte mentre in due punti erano tali da pregiudicare la conservazione futura di Otello. Le radici sono state rimosse dove possibile e sono stati applicati prodotti chimici che ne impedissero la futura rinascita.
Sono state effettuate delle ricostruzioni delle parti più danneggiate?
Le integrazioni effettuate sono state dettate solo da necessità conservative. Sono state ricostruite le fratture di dimensioni maggiori e la zona di giunzione tra le due parti della difesa destra in modo da ricreare omogeneità di lettura del reperto e garantire una sua miglior conservazione futura.
A questo scopo si è scelto un prodotto che mantenesse nel tempo una certa elasticità garantendo l’assorbimento di eventuali sollecitazioni e che fosse facilmente removibile con l’uso di una fonte di calore.
Aveva già avuto esperienze simili prima di questo restauro?
Mi occupo di restauro di fossili dal 2008. Quasi tutti i reperti del Museo Paleontologico di Montevarchi sono stati “curati” da me, inizialmente sotto la guida di un restauratore di fossili, e poi in autonomia.

Ci sono state particolari esperienze passate che le sono state utili?
Ogni lavoro, che sia di restauro paleontologico, lapideo o di dipinti, mi insegna qualcosa di nuovo, e tutti hanno contribuito alla mia formazione permettendomi di affrontare il restauro di Otello con più consapevolezza.
Cosa ha trovato di più interessante o curioso nel restaurare un reperto di questo genere?
Non avevo mai partecipato ad uno scavo vero e proprio e devo dire che per me è stata una bella esperienza, inoltre è stato interessante e utile vedere la diversità di approccio ad uno stesso lavoro tra paleontologi e archeologi.
La musealizzazione ha necessitato particolari accorgimenti?
Per la musealizzazione il problema più grande è stato strutturale. Otello ha un peso notevole e per garantire la sua sicurezza e quella dei visitatori è stato necessario svolgere dei lavori di rinforzo della pavimentazione. Per quanto riguarda la vera e propria esposizione del Mammuthus ci sono state molte riunioni per identificare la zona in cui esporlo, modificare il percorso di visita e dargli il giusto risalto. Il loro risultato è visibile a tutti.

Vuole aggiungere qualcosa?
Oltre al cranio e alle difese sono stati ritrovati altri reperti fossili, tra cui l’ulna che sono tutti in attesa di essere restaurati. Appena possibile verranno esposti anche loro.
Ringrazio ancora la restauratrice di Otello, Antonella Aquiloni, e vi invito, se aveste altre curiosità sul Museo Paleontologico di Montevarchi, a leggere il nostro editoriale dedicato e a visitare direttamente il museo.