In occasione della nostra visita al Palazzo Ducale di Mantova abbiamo posto delle domande alla Funzionaria Archeologa Mari Hirose inerenti all’esposizione La città nascosta, alla realtà archeologica dell’area e alla collezione del Museo Archeologico Nazionale di Mantova.
Tramite poche domande l’archeologa Mari Hirose è riuscita a raccontarci, tra le altre cose, delle ultime scoperte in ambito archeologico della città di Mantova, del perché quest’area fu così interessante in epoche antiche e di alcuni aspetti relativi a museo: quindi dell’esposizione La città nascosta e dei suoi reperti, del loro restauro e delle loro caratteristiche; oltre a rispondere a delle nostre curiosità sulla collezione del Museo Nazionale di Mantova.
Gli studi alla base dell’esposizione “La città nascosta” hanno retrodatato le prime tracce di civilizzazione dell’area di ‘600 anni, fino ad arrivare all’età del bronzo. Secondo lei cosa ha reso questo luogo adatto alla colonizzazione dell’uomo fin da epoche così remote?
Lo sviluppo del territorio mantovano è da sempre strettamente legato al Mincio e alle sue acque. In antichità l’area oggi occupata da Mantova, leggermente rilevata rispetto alla pianura circostante, era completamente circondata dal corso del fiume e da aree paludose, che la proteggevano da tutti i lati quasi come fosse un’isola.
La zona in cui sorsero prima il villaggio dell’età del Bronzo Finale (XII-X sec. a.C.) venuto alla luce nello scavo del quartiere di Gradaro – Fiera Catena e, seicento anni più tardi, la Manthva etrusca, si prestava quindi già di per sé all’insediamento umano, per la sua vicinanza all’acqua e la sua posizione naturalmente protetta.
Non bisogna dimenticare inoltre che i fiumi, nell’antichità, costituivano un’importante via di comunicazione e di commercio, paragonabile alle odierne autostrade.
Tutte queste caratteristiche, unite alla fertilità del suolo della pianura padana e alla ricchezza delle sue foreste, che dobbiamo immaginare simili al lembo conservatosi presso Bosco Fontana, contribuivano a rendere la zona di Mantova particolarmente idonea all’insediamento umano.
La città di Mantova è circondata dal Mincio e da 3 laghi artificiali progettati per la difesa della città in epoca medievale. Questi laghi, compreso quello prosciugato del Paiolo, hanno quindi per secoli risparmiato dall’urbanizzazione un’importante area attorno alla città. Secondo lei questi luoghi potranno regalarci in futuro nuovi rinvenimenti archeologici? O è più probabile che l’umidità dei terreni abbia ormai irrimediabilmente degradato ogni possibile reperto?
Nelle aree un tempo invase dalle acque i rinvenimenti sono scarsi o assenti. Noi tuttavia non conosciamo con esattezza l’altimetria e la topografia precise di tali aree e non possiamo escludere che esistessero isolette o zone sopraelevate, che potrebbero aver attirato il popolamento antico.
È quanto possiamo già dimostrare, per esempio, per l’area in cui si trova Palazzo Te.
Dalla zona delle sponde lacustri, inoltre, provengono sporadici ma interessanti manufatti dell’età del Bronzo, tra cui un’ascia databile al Bronzo Medio (1600-1300 a.C. circa). Questo potrebbe far pensare all’esistenza di un abitato simile a quello coevo dell’Isolone del Mincio, scoperto a Volta Mantovana.
Nuove indagini potrebbero svelarci una parte ancora ignota del popolamento antico in queste zone.
Prima di esporre ogni reperto questo necessita sempre di un restauro, sia esso superficiale o più invasivo. Nei reperti messi in mostra nell’esposizione “La città nascosta”, quali pezzi hanno avuto bisogno delle maggiori cure?
L’allestimento della mostra “La città nascosta. Archeologia urbana a Mantova” è stato l’occasione non solo di presentare al pubblico i risultati di nuove scoperte, ma anche di approfondire gli studi, già iniziati in passato, dedicati ad alcuni importanti ritrovamenti mantovani.
In entrambi i casi, l’intervento dei restauratori si è rivelato di fondamentale importanza.
Due grandi vasi in ceramica dell’età del Bronzo finale, rinvenuti quasi completi ma in frammenti presso lo scavo di Gradaro – Fiera Catena, sono stati ricostruiti a tempo di record dalla ditta Docilia di Bertolotto G&C, in tempo per poter essere esposti.
Il lavoro ha previsto innanzitutto il microscavo dei recipienti in laboratorio, al fine di valutare se all’interno fossero presenti reperti, semi, ossi animali o altro tipo di resti. I frammenti ceramici sono quindi stati ripuliti e consolidati prima della ricomposizione ed eventuali lacune integrate con stucco polyfilla. L’intervento, di particolare difficoltà a causa della grandezza dei recipienti, ha consentito di ricostruire un dolio e un vaso biconico di circa 70 centimetri di altezza, una dimensione ragguardevole per recipienti così antichi.
In occasione dell’esposizione i riflettori sono stati nuovamente puntati su uno dei ritrovamenti più eccezionali degli ultimi anni: la sepoltura di un bambino longobardo di 3-5 anni ritrovata in via Rubens, nel pieno centro storico, nel 2012.
Al momento della scoperta la curiosità del pubblico è stata attirata in particolare dagli elementi di corredo più preziosi, realizzati in oro e argento: la cintura, la collana o la piccola croce cucita sul sudario. Questa volta Palazzo Ducale ha deciso di concentrare l’attenzione su un piccolo coltello in ferro, che il bambino portava legato in vita.
Il coltellino è stato sottoposto a indagini archeobiologiche da Mauro Rottoli di ARCO, Cooperativa di Ricerche Archeobiologiche e successivamente restaurato da Carmela Sirello – Restauro Archeologico e conservazione Opere d’Arte.
Le analisi al microscopio hanno consentito di riconoscere, sulla sua superficie, i resti di diversi tipi di materiali. Il coltello e il suo fodero, in cuoio di capra, erano anch’essi preziosi, con manico in palco di cervo e guarnizioni in lamina d’argento. Il piccolo indossava una corta tunica, probabilmente in lino, abbinata a pantaloni di lana tessuti a batavia, un tipo di lavorazione caratteristico del mondo longobardo, con disegno a righe oblique o a zig-zag. La crocetta in lamina d’oro, infine, era applicata su un tessuto finissimo, una sorta di velo, a simboleggiare la fede cristiana della famiglia.
Il coltellino quindi, a prima vista il manufatto più “povero” del corredo funerario, ha restituito i risultati probabilmente più interessanti dal punto di vista archeologico, raccontandoci qualcosa in più sulla storia di questo piccolo longobardo mantovano.

Qual è il pezzo (o i pezzi) che più lo affascina o al quale è più legata all’interno del Museo Archeologico di Mantova?
Le collezioni del Museo Archeologico conservano centinaia di reperti, fondamentali per ricostruire la storia del territorio mantovano, che spaziano dalla preistoria fino all’età romanica.
Il ritrovamento che però ritengo più affascinante sono senza dubbio gli Amanti di Valdaro, rinvenuti in uno scavo condotto a poca distanza da Mantova.
Si tratta di un ragazzo e una ragazza vissuti circa 5500 anni fa, che sembrano stretti in un abbraccio. Non sappiamo molto della loro vita, solo che erano molto giovani (avevano circa 18 anni) e che furono sepolti assieme, rivolti una verso l’altro, con un piccolo corredo di strumenti in selce scheggiata.
Anche se migliaia di anni ci separano dalla loro epoca, gli Amanti di Valdaro sono ancora in grado di suscitare nei visitatori emozioni senza tempo.

Nel museo archeologico vi sono reperti in materiale lapideo assai vari come: statue, frammenti architettonici o la nuova stele che recentemente ha preso posto nel percorso museale. Sarebbe interessante sapere se le maestranze che vi hanno lavorato e i marmi di cui sono composti i reperti siano locali o importati. È stato possibile definirlo tramite lo studio di questi beni?
I reperti lapidei esposti presso il Museo Archeologico sono stati ritrovati per la maggior parte nell’area dell’odierno Seminario vescovile e provengono da una delle necropoli situate lungo le strade in uscita da Mantova. Si tratta per lo più di frammenti di monumenti funerari, scolpiti in pietra calcarea proveniente verosimilmente dalle cave bresciane di Botticino.
La materia prima poteva arrivare anche dalla zona di Verona (marmo Bronzetto), come nel caso della stele dedicatoria di un sacello a Iside ritrovata ad Acquanegra sul Chiese, o anche da più lontano. L’epigrafe funeraria di un cristiano di nome Tommaso, rinvenuta invece a S. Benedetto Po, è infatti realizzata con marmo di Lasa, cavato in val Venosta.
Per quanto riguarda le maestranze sarebbe interessante effettuare uno studio di questi materiali, per approfondire, se possibile, se si trattasse di artigiani mantovani o provenienti da altre località.
StorieParallele dedica pillole di conoscenza al tema della Storia della Gastronomia. All’interno delle vostre collezioni sono presenti reperti riguardanti l’archeologia del cibo, come reperti organici, vasellame, reperti collegati con la cottura o con la preparazione degli alimenti?
Numerosi reperti riguardanti l’”archeologia del cibo”, anche se non tutti esposti, provengono dagli abitati etruschi del mantovano, in particolare dal Forcello di Bagnolo S. Vito.
Qui gli archeologi dell’Università degli Studi di Milano hanno avuto la possibilità di scavare i resti di diversi edifici, distrutti da incendi tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C. Il ritrovamento delle suppellettili che arredavano le case, bruciate dal fuoco, nel punto esatto in cui venivano utilizzate, ha permesso di distinguere la destinazione di gran parte degli ambienti domestici, tra cui locali utilizzati come cucine e come dispense per la conservazione delle derrate alimentari.
In una delle dimore i cibi venivano cotti sia su un focolare, sia su un fornello portatile in terracotta, vicino ai quali si trovavano vasi con funzione di pentole. Macine e macinelli erano utilizzati per la molitura dei cereali con cui era preparata la farina, mentre recipienti di diverse forme e dimensioni erano appoggiati su scaffali disposti lungo le pareti.
La stessa abitazione ha restituito un grande mortaio in ceramica, con fondo rivestito di grani di quarzo, con cui venivano triturati gli alimenti.
Numerosissimi reperti organici rimandano alla preparazione degli alimenti. Mi riferisco in particolare a resti di animali sia domestici, sia selvatici, che costituivano la dieta carnea degli antichi abitanti del Forcello, a cereali e legumi, ma anche a frutti e miele (dal Forcello provengono infatti le prime testimonianze archeologiche della pratica dell’apicoltura presso gli Etruschi).
Anche i prodotti di importazione erano apprezzati, come l’olio o il vino pregiato provenienti dalle isole del mar Egeo, commerciati via mare all’interno di anfore da trasporto.
Arrivati fin qui non possiamo fare altro che ringraziare ancora la gentile Mari Hirose e darvi appuntamento al prossimo articolo, o perché no, ad una visita in museo.