Se di recente avete seguito i nostri social saprete che il 29 ottobre al Museo Archeologico Nazionale di Firenze si è inaugurata la mostra “Tesori dalle terre d’Etruria”.
Per introdurvi alla mostra devo fare un salto nel passato, non sino agli Etruschi, bensì al 1862, quando, nella famiglia di Pietro Passerini da Cortona, nasce un nuovo membro: Napoleone Passerini. È proprio a lui che dobbiamo, oltre che la selezione della razza Chianina (particolare che meritava di essere citato), la costituzione della mostra che possiamo osservare oggi. Napoleone Passerini fu infatti, già adolescente, appassionato e collezionista di arte etrusca radunando negli anni questa raccolta di soli pezzi della Val di Chiana, in principio grazie all’eredità del padre, poi promuovendo scavi e acquistando reperti già sul mercato. Col tempo però la collezione sarà smembrata, in parte andrà al Museo Archeologico Nazionale di Firenze ma bisognerà aspettare fino al 2016 per ottenere, in mani pubbliche, anche gli ultimi 82 pezzi, quando una donazione privata li consegna al Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale di Firenze.
I reperti che compongono la mostra sono principalmente provenienti da corredi con manufatti correlati alle attività domestiche, vasi di varia fattura e provenienza, oreficerie, elementi decorativi in terracotta, bronzi, avori, etc. Per citarne alcuni, abbiamo vasi provenienti dalla Grecia, applique dorate per la decorazione del mobilio e alcuni cimeli appartenuti allo stesso Napoleone Passerini.
Anche dal punto di vista dei materiali la mostra è certamente molto ricca, gli etruschi erano infatti, abili nella lavorazione delle terrecotte, dell’avorio e dei metalli, quali l’oro, il ferro o il bronzo.
Particolarità molto interessante e per nulla scontata della mostra è che, oltre a esporre i reperti archeologici e a raccontarne la storia e l’utilizzo, vengono anche spiegate le operazioni di restauro che hanno interessato la collezione.
Questa scelta crea l’occasione per divulgare un lavoro che ha un fondamentale impatto sull’opera e sulla sua storia, ma che spesso rimane dietro le quinte e che perciò risulta, nella maggior parte dei casi, alquanto sconosciuto. Il restauro è invece un fondamentale momento di studio per il nostro patrimonio, è proprio in questa fase che si è a stretto contatto con l’opera, se ne studiano le tecniche di lavorazione e le più intime caratteristiche. Oltre a ciò è necessario ricordare che è solo da qualche decina di anni che il restauro è diventato più conservativo che ricostruttivo, perciò la maggioranza delle volte che vediamo un’opera d’arte dobbiamo anche essere consci che è altamente probabile che il suo aspetto sia stato modificato sì dal tempo, ma anche dai restauri o rimaneggiamenti che si sono susseguiti nei secoli. È quindi un tema che non può non essere citato e raccontato in museo.
In questo caso in particolare i restauratori si sono dovuti confrontare con stati di conservazione molto differenti tra loro; vi erano alcuni reperti che presentavano ancora la terra di scavo mentre altri avevano già subìto importanti operazioni di reintegro mimetico, tipico del restauro antiquariale dell’ottocento.
A tal proposito, fondamentale contributo per poter scrivere questo articolo, per capire le operazioni di restauro e le caratteristiche delle opere è stata Giulia Basilissi, funzionario restauratore della Direzione Regionale Musei della Toscana e in servizio presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Colgo quindi l’occasione per ringraziarla della disponibilità e della cortesia di aver condiviso parte della sua esperienza di restauro con me in modo da poter meglio descrivere i reperti e il loro restauro.
Come accennato, in qualche caso i reperti presentavano importanti opere di ricostruzione, questo perché in epoche passate si tendeva a ridare all’opera un aspetto di integrità piuttosto che salvaguardare e valorizzare ciò di rimasto. In merito a questo, prima di entrare più nello specifico vi invito a leggere l’articolo “Conservazione e reinterpretazione: il gruppo del Laocoonte”, che analizza le vicissitudini dell’opera come esempio dei diversi approcci all’Antico nel corso della Storia.
Come per il Laocoonte, anche nella collezione Passerini vi sono stati importanti ricostruzioni, come l’emblematico caso della situla.
La situla è un vaso di medie dimensioni in metallo o in terracotta con decorazioni superficiali che era trasversalmente diffuso in varie civiltà antiche. La situla in oggetto di questo approfondimento è eseguita in bronzo con anse mobili. Il bronzo è un materiale assai diffuso, assai elegante, ma purtroppo anche molto suscettibile alle corrosioni data la presenza di rame all’interno della lega. La superficie della situla è infatti completamente interessata dall’ossidazione ma ciò che è interessante è che dopo un primo intervento di pulitura si è potuto notare come la parte inferiore del vaso fosse in realtà completamente ricostruita. La corrosione aveva portato alla perdita parziale della situla prima ancora del suo ritrovamento e doveva essere quindi stata ricostruita, sempre in ottica di un restauro ricostruttivo e reinterpretativo piuttosto che conservativo. Durante il restauro è stato possibile osservare che la ricostruzione della parte perduta del fondo era stata eseguita reimpiegando uno specchio in bronzo e nascondendo tale integrazione utilizzando materiali che simulassero la superficie originale.
Quella di creare un aspetto esteriore che coincida con una zona originale già degradata è una pratica interessante e che i restauratori odierni, in alcuni casi, riescono subito ad identificare. Questo perchè in alcuni manufatti restaurati con metodologie antiquariali i materiali impiegati per le integrazioni presentavano già un accentuato degrado (sollevamenti, lacune, viraggi di colore, ecc) molto diverso dal percorso conservativo delle superfici originali.
Tra i vari generi di reperti, la collezione è ricca di buccheri, ossia pesanti ed eleganti vasi in terracotta nera, con, quando presenti, fini decorazioni incise o a rilievo.
Questi reperti presentavano frequenti integrazioni eseguite durante il precedente intervento di restauro utilizzando sia frammenti di altri buccheri (quindi non pertinenti) sia inserendo parti in terracotta appositamente foggiate e verniciate. Con le stesse stesure si è anche cercato, laddove il materiale costitutivo del reperto apparteneva ad un’altra classe ceramica, di simulare il bucchero. Il lavoro dei restauratori del Museo di Firenze è stato quindi quello di rimuovere le parti non originali, disciogliere le stesure e ricomporre i pezzi con materiali più coerenti e rispettosi dell’opera, senza coprire o mascherare le parti originali.
Sicuramente molto interessante è anche il caso del piede di un vaso in bucchero (vedi foto di presentazione) che presenta sulla superficie a contatto con l’originale, quindi nascosta all’osservatore, il segno di una M, che pare poter essere proprio la firma del restauratore ottocentesco.
Sebbene, come detto, i restauri delle epoche passate siano teoricamente incompatibili con quelli odierni, è anche vero che sono una testimonianza storica che ci informano delle tecniche e dei materiali utilizzati, oltre a fornire informazioni sul pensiero e l’approccio metodologico dell’epoca. Non è quindi per forza corretto cancellare in toto questi restauri riducendoli a mera espressione di un modo “sbagliato” di porsi alle opere antiche.
Questa è sicuramente una tematica che è stata presa in considerazione durante le operazioni di restauro e di studio della esposizione della collezione. Alcuni pezzi sono stati infatti esposti mantenendo ed evidenziano i restauri ottocenteschi ancora integri in modo da poter essere visti dal pubblico e rimanere nel tempo come documento storico.
Secondo lo stesso principio di riconoscimento del valore intrinseco delle operazioni di restauro ottocentesche sono state anche fatte delle analisi diagnostiche dall’IFAC-CNR di Firenze con lo scopo di studiare i materiali utilizzati e se questi fossero coerenti con la descrizione trovata da un gruppo di restauratori di Chiusi, primi ad aver cominciato le operazioni di conservazione sulla collezione. La fonte bibliografica a cui si è fatto riferimento è stata “Archeologia e antiquaria a Chiusi nell’Ottocento: storie di eruditi, mercanti, collezionisti e scavatori” di Enrico Barni e Giulio Paolucci, Milano, Electa, 1985.
Concludendo, nel percorso espositivo si snoda quindi anche il racconto degli interventi di restauro antiquariale e di quello moderno. Le didascalie che presentano una colorazione marrone permettono infatti di leggere informazioni in merito alla storia conservativa dei reperti.
Sicuramente un’ottima occasione di godere delle opere del passato e di scoprire il lavoro e lo studio dietro ai restauri e alle mostre archeologiche.