L’olivo era sicuramente una delle colture più sviluppate nell’Antica Roma. Le fonti latine riportano molte informazioni in merito: indicazioni circa la potatura, i vari sistemi di raccolta e alcune tecniche di frangitura. La spremitura avveniva per mezzo di mazze e bastoni all’interno di appositi contenitori in pietra.
In particolare, Plinio gli dedica il libro 15 della sua Naturalis Historia (par. 21-36) e Columella ne parla nel suo De Re Rustica, definendolo “Olea prima omnium arborum est”, ovvero “fra tutti gli alberi il primo posto spetta all’ulivo” (De Re Rustica, V, 8, 1). Anche Varrone dedica alcune pagine all’olio, in particolare sulle modalità delle olive, giudicando il migliore quello di Venafro: “Al contrario in Italia cosa v’ha di utile che non solo non nasca ma non venga anche bene? Quale, olio (si potrebbe paragonare) a quello di Venafro?” (De Re Rustica 1-2/6)
La tecnica olivicola romana era davvero innovativa: la frangitura delle olive avveniva tramite un mortaio, il trapetum, o di un mola olearia. La pasta di olive ricavata dalla frangitura era spremuta per mezzo del torcular.. La mistura era poi convogliata in un recipiente e, grazie all’affioramento, era possibile eliminare la morchia.
- Oleum ex albis ulivis, da olive ancora acerbe;
- Oleum viride, da olive appena invaiate;
- Oleum maturum, da olive mature;
- Oleum caducum, da olive raccolte da terra;
- Oleum cibarium, da olive aggredite da parassiti, era ad usi non alimentari.
L’olio di qualità scarsa veniva largamente impiegato nella cosmesi e nella medicina: balsami e unguenti venivano utilizzati non solo come rimedi di bellezza ma anche per curare ustioni e lacerazioni della pelle.