Dei tre archi di trionfo conservati a Roma è questo quello che risulta essere più completo e integro, capace di restituirci con esattezza la ricchezza decorativa impiegata per questo tipo di monumento. Eretto nel 202-203 d.C., nella zona nordoccidentale del foro, fu dedicato dal senato per commemorare la vittoria di Settimio e dei figli Caracalla e Geta sull’esercito dei Parti nelle campagne militari del 185-197 d.C.
L’arco non differisce dagli archi che abbiamo già visto: come quello di Costantino e quello di Tito, la struttura in travertino presentava tre fornici di passaggio che immettevano direttamente nel foro, veniva a far parte di una quinta architettonica monumentale costituita dall’Arco di Augusto non più visibile, quello di Tiberio e il portico di Gaio e Lucio Cesare. Addossate alle pareti si ergevano colonne sporgenti che sorreggevano l’iscrizione dedicatoria posta nella sommità dell’attico. In antico l’arco doveva ospitare la quadriga imperiale dell’imperatore insieme ai figli, una volta morto Settimio, però, Caracalla assassinò il fratello e fece togliere la quadriga e la dedica in bronzo posto sotto il fornice maggiore.
Quello che colpisce oggi il visitatore è l’articolata decorazione celebrativa che adorna l’intero edificio: sui basamenti delle colonne sono presenti soldati romani che conducono in processione dei prigionieri partici, vittorie con trofei, geni delle stagioni e personificazioni dei fiumi aiutano ad arricchire il racconto principale che si snoda in un grande fregio sui fornici minori. Le scene sono ambientate in Mesopotamia (attuale Iraq e Iran) e illustrano le diverse tappe salienti della campagna militare: si riconosce come consueto la partenza dell’esercito, lo scontro, la liberazione della città di Nisibis e l’adlocutio imperiale all’esercito con i figli e lo stato maggiore.
Anche in questo caso molti elementi vennero riutilizzati e recuperati da altri monumenti di diversa epoca e stile: si riconoscono statue e rilievi di epoca traianea, nonché elementi risalenti al periodo di Marco Aurelio.
Particolare importanza riveste La presa della città di Ctesifonte, in quanto le figure umane vengono inserite in un contesto molto variegato di azioni, macchine d’assedio e nemici, realizzato con un massiccio uso del trapano. Questo voleva dire marcare la profondità delle figure, far risaltare il chiaro scuro attraverso l’uso netto di zone di luce e di ombra. Quest’arte chiamata provinciale o plebea risulta adatta allo scopo narrativo delle immagini: dovevano essere facilmente intellegibili, semplici nell’articolazione per avere un impatto più diretto sull’osservatore. Per far sì che ciò avvenisse vennero tralasciati i dettagli e le finezze ellenistiche, le figure risultano a volte sproporzionate ed inserite in un ambiente piatto e poco caratterizzato.