La documentazione letteraria antica è concorde nell’attribuire agli Etruschi una struttura sociale fondata su di un esteso lavoro dipendente, dominata da un’aristocrazia immersa nel lusso e nell’ozio e minata da tendenze oligarchiche.
La classe servile viene identificata con il termine penéstai. All’interno di Antichità Romane Dionigi di Alicarnasso usa questo termine in due passaggi chiave: una prima volta esso viene utilizzato per identificare la condizione semi-servile di dipendenza dai signori in Tessaglia (D.A. II,9:2), in un secondo momento il termine penéstai viene utilizzato da Dionigi all’interno della descrizione degli eserciti dei Principi Tirreni giunti a Veio nel 480 a.C. in aiuto della città assediata dai Romani: con penéstai esso identifica i servi al seguito dei Principi Etruschi che ne compongono gli eserciti (D.A. IX, 5:4).
Questo facilita una prima definizione del ceto servile etrusco, infatti la condizione dei penéstai è sufficientemente conosciuta: legati alla terra in una sorta di servitù della gleba, essi erano sottoposti ai loro signori (che potevano punirli, ma non esiliarli o ucciderli) giuridicamente liberi; prestavano un qualche servizio militare, avevano diritto a talune forme di possesso. Altre fonti supportano questa definizione.
Zonara afferma che successivamente alla sconfitta subita da Roma (inizio III secolo a. C.) ai servi venne affidata l’amministrazione della città, gli fu dato in mano parte dell’esercito ed infine concesso di sposare donne dell’aristocrazia. Questo avvalora la condizione di liberi o semi-liberi di questi individui.
A questo proposito Diodoro Siculo cita Posidonio, il quale descrive con meraviglia le case dei servi etruschi che potevano essere addirittura più ricche e grandi rispetto a quelle dei loro signori. Ciò ci induce a credere che essi potessero possedere terreni ed una dimora e che quindi godessero in certa misura di libertà.