Come è stata trovata la fornace di Scoppieto? Era l’agosto del 1995 quando iniziò una campagna di scavo nell’Area Archeologica di Scoppieto, frazione del comune di Baschi, in provincia di Terni. La zona, che interessa un pianoro a circa 480 metri sul mare, domina la vallata del Tevere, lungo la riva sinistra del fiume e occupa il territorio della colonia romana di Tuder, odierna Todi.

Archeologia del Cibo: vasellame da tavola e da cucina
Molti addetti ai lavori agricoli avevano rinvenuto nei campi diversi frammenti di ceramiche: fra essi alcuni scarti di lavorazione che lasciavano ipotizzare l’esistenza di una fornace atta alla produzione di ceramica da mensa, detta terra sigillata. Fu questo lo stimolo a iniziare la campagna di scavo, promossa dal Dipartimento di Scienze Storiche dell’Antichità dell’Università di Perugia, sotto la direzione della Prof.ssa Margherita Bergamini.
Lo scavo ha restituito sin da subito materiali rilevanti, prodotti in una locale manifattura romana, risalente alla prima età imperiale. Il picco produttivo è da collocarsi in età neroniana (54 – 68 d.C.), ma ci sono tracce di attività sino all’età domiziana (81 – 96 d.C.). Si tratta di un complesso produttivo di ceramiche da tavola e vasellame da cucina, oltre che lucerne e laterizi.
Il vasellame da tavola prodotto in loco era appunto del tipo terra sigillata e deve il suo nome al sigillum, ovvero il punzone con cui venivano impressi i motivi decorativi sulle matrici con cui venivano poi realizzati i vasi decorati a rilievo. I reperti sono oggi esposti in alcune splendide vetrine del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria a Perugia.

La fornace
Il territorio offriva tutto il necessario per l’attività artigiana: argilla di buona qualità, acqua corrente e legna. Gli scavi hanno portato alla luce alcuni ambienti rettangolari, oltre ad una fornace e alcune vasche di decantazione per l’argilla. Le postazioni dei vasai erano poste lungo il corridoio, allineate alle finestre.
Analizzando la struttura, gli studiosi hanno ipotizzato che piuttosto che una grande fabbrica a gestione unitaria, la fornace fosse un’aggregazione di vasai indipendenti, che producevano quindi individualmente ma utilizzando strutture in comune.
La fornace adibita per la cottura dei pezzi era di tipo verticale: un corridoio (praefurnium) conduceva alla camera di combustione (furnus) dove un piano forato fungeva da separatore con la camera di cottura, coperta a volta. Il fumo e l’aria calda passavano in condutture (tubuli) tramite il piano forato: i vasi cuocevano per irraggiamento del calore e la presenza di ossigeno rendeva l’ambiente ossidante, conferendo ai vasi il caratteristico colore corallino.

Esportazioni e commercializzazione
I reperti, oltre a parlarci del loro uso nella vita quotidiana degli abitanti del pianoro, sono testimoni parlanti anche da un punto di vista economico. Alcuni frammenti riportano il bollo contenente le iniziali dei ceramisti che li hanno prodotti: Lucius Plotidius Zosimus e Lucius Plotidius Por(…), il cui nome purtroppo non compare mai per intero, sono solo alcune delle attribuzioni, anche se i nomi più comuni sono tutti riferibili alla gens Plotidia.
Questi prodotti, considerati di valore artistico di pregio, erano esportati a Roma. I costi di trasporto della ceramica erano relativamente bassi ed erano molto competitivi sui mercati internazionali: prendendo la via marittima dal vicino Porto di Ostia, giungevano sino in Sardegna e sulle coste dell’Africa del nord, protagonisti dei vivaci scambi commerciali del sistema economico imperiale.
A Scoppieto sono documentati ben 95 diversi marchi di officine, attive nei primi due secoli dell’Impero: queste erano generalmente a conduzione familiare, anche se non si può escludere del tutto l’impiego di manodopera servile, cui spettavano i compiti più anonimi nella fabbricazione di prodotti in serie.
