Storicamente parlando, i materiali impiegati per la tessitura di arazzi, tessuti e tappeti potevano essere di origine animale (lana e seta) o vegetale (lino, canapa, cotone e juta). In casi eccezionali e rari venivano utilizzati anche i filati metallici, ovvero, fili composti da un’anima di seta avvolta da una sottile lamina d’argento o d’argento dorato. La presenza di filati metallici in un tessile antico presupponeva la compartecipazione di più fattori, legati ad aspetti figurativi, tecnici e simbolici. Emblema di potere per eccellenza, si tratta di materiale estremamente prezioso, la cui commissione era pressoché riservata alla clientela più facoltosa e monitorata all’interno delle corporazioni delle arti e dei mestieri.

Curiosità storiche e produttive del filato metallico
La storia dei filati metallici in oro e argento, iniziata già nel III millennio a.C. in Medio Oriente, si è andata sviluppando in diversi territori, dalle aree mediterranee a quelle d’Oltralpe, intrecciandosi ad altre discipline come il settore del tessile e dell’oreficeria, quindi della moda, del costume e più genericamente quella sociale ̶ pubblica e privata ̶ secondo i dettami imposti dai provvedimenti legislativi delle leggi suntuarie.
Le prime testimonianze frammentarie che riferiscono l’uso di filati preziosi, seppur spesso confuse tra la leggenda e le fonti religiose, risalgono addirittura a mille anni prima di Cristo, come riportato nell’Antico Testamento. L’arte dell’oro filato, conosciuta già dai popoli antichi come Fenici, Persiani ed Egizi, penetrò in Italia presumibilmente passando per la Magna Grecia; numerose, infatti, sono le notizie fornite dagli scrittori latini, quali Virgilio nell’Eneide e Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.
La fabbricazione dei filati metallici avveniva all’interno di botteghe altamente specializzate e distinte in tre branche a seconda dei tecnicismi produttivi: battiloro, tiraoro e filaoro.
I Battiloro erano operatori specializzati nella creazione di foglie d’oro mediante il metodo della battitura e del taglio di sottili strisce metalliche. La tecnica prevedeva la fusione dell’oro puro attraverso la quale si ottenevano verghe che venivano poi battute sopra un’incudine d’acciaio e ridotte a quattro o cinque millimetri di spessore. La verga, più volte ricotta e assottigliata era pronta per la laminatura; durante questa fase il metallo veniva stirato fra due cilindri d’acciaio e ridotto, attraverso vari passaggi a un nastro. La terza operazione, la battitura, prevedeva il susseguirsi di quattro martellate, eseguite su speciali ‘forme’ composte di fogli di pergamena prima e di “pelette” (budello animale) in un secondo tempo, tra i quali si inserivano i pezzi tagliati in quarti della lamina. A ogni colpo di martello il metallo, sempre più assottigliato, veniva tagliato ancora in quarti sino all’ultima battitura la quale riduceva le foglie d’oro della misura e dello spessore voluto. Tale lavorazione richiedeva una perizia non comune; infatti, le dimensioni raggiunte delle foglie dorate erano dell’ordine di un decimillesimo di millimetro. E’ chiaro quindi che un colpo di martello sbagliato poteva rendere vano tutto il lavoro svolto.
I Tiraoro, invece, erano gli artigiani addetti alla trasformazione del metallo in filato, detto filo tirato, mediante l’uso di diverse filiere costituite da fori rotondi di misure decrescenti. La verga d’argento, tirata con un argano che la riduceva al diametro desiderato, veniva scaldata al fine di ricevere la doratura, ottenuta mediante la sovrapposizione di diverse foglie d’oro del peso di circa mezzo grammo cadauna. A sua volta, l’asta dorata veniva tirata attraverso una filiera con fori di diametro sempre più piccolo. Il filo tirato dorato, quindi, poteva essere ridotto in lamina mediante il processo di compressione tra due cilindri in acciaio.
Le lamine metalliche battute o tirate erano quindi pronte per essere trasformate in filato dai Filaoro. Quest’ultima figura artigianale (rigorosamente femminile) andava a completare la produzione avvolgendo a elica le lamine dorate o argentate intorno a un’anima in fibra tessile, con un particolare strumento detto molinello a un filo.

Discorso differente deve essere fatto, invece, per le tecniche di realizzazione dei filati metallici più antichi, di derivazione orientale, conosciuti come:
- Oro papirifero: filato di origine cinese ma utilizzato anche in Giappone, veniva realizzato mediante una tecnica che prevedeva la doratura di un supporto cartaceo lungo un solo lato; i fogli di carta venivano poi tagliati in sottili striscioline, utilizzate singolarmente come lamine oppure filate su anima di lino o di canapa.
- Oro membranaceo: filato semplice e lamellare, costituito da una stretta striscia dorata (orpello), raramente argentata (argimpello), ottenuta da membrane di intestino di buoi o montoni e avvolta su un’anima di lino, canapa o seta.
I fabbricanti italiani ed europei si specializzarono a partire dal XV secolo nella produzione dell’Oro filato, ovvero un filato costituito da una lamina metallica avvolta con torsione a «S» o a «Z» attorno ad un filo in lino, cotone, canapa e/o seta.
L’arte del filo metallico conobbe il periodo di massimo splendore tra il XIII e il XVII secolo in Italia, sviluppandosi all’interno delle Corporazioni di Mestiere, sorte nelle città già famose per il commercio della seta, come Lucca, Venezia, Genova, Firenze e Milano; quest’ultima, divenne celebre per l’Oro di Milano, filato in argento, dorato solamente lungo la faccia esterna grazie alla tecnica della doratura con amalgama di mercurio.
Nel 1504, a Norimberga si ebbe il passaggio evolutivo al filo tirato in lamina metallica grazie all’uso della trafila. Il perfezionamento tecnico dalla filiera alla trafila porterà poi alla produzione dell’ Oro cartolino, un filato d’argento dorato su entrambi i lati, impiegato solamente a partire dal XVII secolo. Da un punto di vista tecnico, tale filato veniva prodotto a partire da una verga d’argento, che tirata per mezzo di un argano del diametro desiderato, veniva scaldata al fine di ricevere la doratura, singola o doppia, data dalla sovrapposizione di diverse foglie d’oro. È da sottolineare come l’allungamento e l’assottigliamento del filo permettessero comunque di mantenere la doratura sulla superficie, senza che l’argento sottostante emergesse.

Nella foto possiamo distinguere diverse tipologie di filato metallico: a) lamina metallica; b) filato tondo metallico; c) lamina metallica avvolta a spirale intorno ad un’ anima in seta; d) filo a spirale; e) striscia di membrana dorata avvolta a spirale intorno ad un’ anima in seta; f) striscia di pelle dorata avvolta a spirale intorno ad un’ anima in seta.
Composizione chimica e cause di degrado dei filati metallici
Le caratteristiche tecniche e morfologiche dei filati d’oro e d’argento, se da un lato sono strettamente legate alle figure artigianali che portarono alla loro realizzazione, dall’altro non possono prescindere dalle proprietà intrinseche dei metalli, dalle leghe impiegate e dagli effetti cromatici ricercati dal tessitore. Infatti, a seconda dell’uso e del budget a disposizione, si poteva scegliere la qualità del metallo, così come del prodotto finito.
I filati metallici determinavano nella tessitura effetti di brillantezza e luminosità, evidenziando, ad esempio, il ‘colpo di luce’ all’interno della raffigurazione oppure preziosi motivi decorativi in abiti e armature.

Particolare del tessuto dell’abito, manifattura fiorentina, motivi neri e oro su fondo color avorio
I metalli maggiormente utilizzati furono l’oro e l’argento in quanto, in virtù del pregio e delle proprietà meccaniche (duttilità e malleabilità), erano idonei per lavorazioni di precisione. Nonostante ciò, per ragioni di economicità, l’oro puro veniva spesso sostituito da leghe di oro, argento e rame.
Se da un lato l’impiego dell’argento dorato riduceva i costi, dall’altro andava a discapito del prodotto finale che, con il passare del tempo, poteva perdere la sua lucentezza per assumere una colorazione scura, nel caso in cui la doratura non fosse ben eseguita, determinando l’insorgere di problematiche a livello conservativo. Infatti, mentre l’oro è chimicamente inalterabile e inattaccabile, l’argento, pur essendo anch’esso un metallo nobile, ha dei “nemici” naturali che ne provocano l’ossidazione e la corrosione. Gli elementi inquinanti presenti in atmosfera come il solfuro di carbonile (COS), l’anidride solforosa (SO₂), il solfuro di carbonio (CS₂) e l’acido solfidrico (H₂S) in presenza di ossigeno e umidità portano alla formazione di patine che alterano le proprietà chimiche e ottiche dell’argento. Nel campo della conservazione dei metalli gli elementi sopra citati possono essere classificati in “patina nobile” e “patina vile”, ovvero prodotti di alterazione stabili e instabili. Gli ossidi di argento e/o di rame costituiscono uno strato continuo con la superficie originale tanto da considerarsi protettivi naturali, “patine nobili” contro la corrosione reattiva. I cloruri invece sono alterazioni instabili che in condizioni ottimali portano alla continua corrosione del metallo. La reazione dell’argento con gli ioni solfuro e cloruro inizia quando lo strato di autoprotezione viene distrutto e questo può accadere anche con i mezzi usati per il restauro e la conservazione. Gli ioni di argento altamente mobili possono causare la formazione di solfuro d’argento anche al di sopra di superfici ‘inerti’ come la doratura superficiale del filato metallico.