Nella cucina moderna i dolci sono divenuti il simbolo stesso dell’abbondanza delle nostre società: la loro onnipresenza, specialmente di prodotti frutto di lavorazione industriale, è divenuta addirittura motivo di allarme per i rischi che comportano eccedere in diete ipercaloriche. Ma quanto erano diffusi i dolci nell’Antica Roma? La risposta non è agevole, poiché non vi è abbondanza di fonti sull’argomento.
I dolci nelle fonti letterarie
Da ciò che si può evincere l’uso dei dolci durante un pasto o un banchetto non era comune né frequente. Le fonti letterarie riportano qualche esempio eccezionale, come la celebre cena di Trimalchione (Petronio, LX), al termine della quale furono serviti dolcetti a forma di tordi (ripieni di uvetta e noci) e mele spinose ad imitazione dei porcospini.
Imitare forme di animali nella composizione di una ricetta era evidentemente diffuso nelle cene più lussuose e abbondanti dell’alta società romana imperiale (se ne trovano attestazioni anche in Apicio), tuttavia in Petronio, Trimalchione rappresenta in modo quasi caricaturale il comportamento dei patrizi, arrivando ad eccessi da cui certo on si può dedurre una reale diffusione di un certo costume: è difficile pensare che venisse davvero servito nella realtà a fine pasto un dolce come quello da lui descritto: una pasta dolce a forme di Priapo, ricolmo di frutti e a sua volta circondato da altre torte.
Ad ogni modo possiamo dedurre che l’abitudine a consumare qualche dolce magari al di fuori dei pasti principali, ci fosse già in età repubblicana: il rigoroso Catone ne fornisce alcune attestazioni, ad esempio i globi, il savillum e il libum. Si tratta di dolci dalla semplice realizzazione e dagli ingredienti comuni (come si conviene da un autore che certo non amava gli eccessi): formaggio dolce, miele, farine e semi di papavero. L’abitudine a fare dolci semplici e rapidi in casa doveva essere abbastanza diffusa, ne abbiamo un ulteriore testimonianza del De re coquinaria di Apicio, dove si trova attestata la ricetta di dulcia domestica, dei datteri (frutto spesso utilizzato anche come dolcificante nella Roma imperiale, dopo la conquista e l’annessione del Nord Africa e del Mediterraneo Orientale) ripieni di noci e “glassati” con il miele.
Oltre che in casa in età imperiale i dolci venivano venduti anche da botteghe specializzate: è il caso dei pistores dulciarii (Marziale XIV, 22), specializzati in prodotti da forno dolcificati con il miele. Le fonti riportano anche l’esistenza dei crustulari, lavoratori di biscottifici diffusi anch’essi in piena età imperiale (Seneca, Epistole, 56, 72).

I dolci nelle fonti archeologiche
Attestazioni di dolci non si hanno soltanto dalla letteratura: è dall’archeologia che proviene probabilmente la traccia più evidente dell’abilità dei Romani di realizzare dolci giunti, con qualche modifica, fino a noi. A Oplontis, nella cosiddetta Villa di Poppea è stato ritrovato un eccezionale affresco che ritrae un dolce di colore rosso che ai nostri occhi richiama immediatamente la cassata siciliana. Purtroppo, niente è pervenuto a noi circa la composizione di questo dolce, ma sia la ricotta, i frutti e la pasta dolce erano ben conosciuti nella Roma imperiale, quindi non è impossibile ipotizzare la somiglianza tra il dolce antico e il possibile erede moderno.
Una differenza, tuttavia, nella realizzazione dei dolci doveva esserci: nell’antica Roma, infatti, non era diffuso l’utilizzo della canna da zucchero (conosciuta solamente in piena età imperiale), un ingrediente per noi moderni imprescindibile nella realizzazione di dolci sia artigianali che industriali. Allo stesso modo era sconosciuto l’uso della cioccolata, realizzata con i semi della pianta del cacao pervenuti in Europa solo in seguito alla scoperta del continente americano.
