Alla fine del sedicesimo secolo si verificò un grande cambiamento nelle posizioni di comando della società, una volta saldamente tenuta per la nobiltà europea. Si può parlare dunque di crisi dell’aristocrazia? Il declino economico di una parte dell’aristocrazia andò di pari passo con l’arrivo di nuove figure provenienti da un inferiore livello sociale. “Ci ingannerà comunque se ci fermassimo al tema del declino, perché per molti versi gli avvenimenti furono più complessi ed è impossibile farne una generalizzazione che si applichi, convenientemente in maniera simultanea, a diversi paesi europei” [1].
La violenza e il potere
Il concetto stesso di nobiltà mutò al mutare delle sue condizioni. A fine del sedicesimo secolo molti iniziarono a sostenere che il potere era conferito dal lignaggio e dunque i nobili erano superiori poiché di alto lignaggio. Nella letteratura del tempo si nota, tenendo conto di eventuali posizioni antinobiliari, come fosse percepita estensivamente la necessità ti porre fine a quella che era l’aristocrazia tradizionale con una più giovane e civile, creata in ragione dei servizi che avrebbe reso allo Stato. Il motivo principale di questa necessità era stata l’incapacità della nobiltà tradizionale di restare al passo con i tempi. Sino a quel tempo l’importanza militare dei nobili era notevole, fondata sulle armate messe a disposizione del re. Di fatto la nobiltà controllava la maggior parte delle forze militari del Regno e, in questo contesto, la maggior parte degli atti di violenza provenivano dall’aristocrazia.
Questa prerogativa militare e violenta viene “attaccata” soltanto in alcune parti dell’Europa; nelle zone centrali e orientali, dove della corona era più debole, queste dinamiche furono invece lasciate intatte, o furono comunque meno soggette a mutamenti. Tuttavia, anche dove avvennero i cambiamenti maggiori, a metà del ‘600, gli eserciti avevano ancora una struttura feudale e l’aristocrazia forniva ancora una ingente parte delle forze militari del Regno, in alcuni casi (come in Francia) anche più della metà delle truppe. Per tutto il ‘500 i nobili mantennero l’iniziativa militare, nonostante i primi cambiamenti in atto. Solamente all’inizio del diciassettesimo secolo avvenne un primo reale e concreto passo avanti nella creazione di eserciti nazionali, senza l’impiego di forze “nobiliari”.
Le lamentele dei contemporanei erano dirette tuttavia contro l’uso arbitrario della violenza personale, piuttosto che verso la loro influenza politica: “la nobiltà al giorno d’oggi è così violenta e fuori legge che si dedica soltanto alla spada e agli assassinii”[2]. Era comune, infatti, che i nobili si dessero al banditismo, specialmente in tempo di guerra e nell’Europa meridionale, saccheggiando le campagne, rapinando, assassinando, incendiando e perpetrando atti di violenza personale[3]; arrivando persino a comandare i gruppi di banditi[4]. A metà del diciassettesimo secolo gran parte dei fenomeni di brigantaggio e anarchia erano stati terminati, rappresentando una minaccia troppo aperta nei confronti dello Stato. Tuttavia, forme più limitate di violenza personali perpetrate dai nobili continuarono a sopravvivere.

“Lavorare non è così male”
Dal rafforzamento statale, dal graduale impoverimento di molte famiglie di nobili, dalla pacificazione della nobiltà e dal termine del nobile-guerriero, si crearono delle mutate usanze, come la crescente preferenza per le contese legali piuttosto che per gli atti di brigantaggio. Oltre che a nuove usanze nacque anche una nuova etica. Forse il più grande cambiamento fu la convinzione che anche i nobili potevano lavorare. Questo mutamento in particolare non arriva a caso: come abbiamo detto parte della nobiltà soffriva di problemi economici e il commercio diventava sempre meno sconveniente agli occhi della nobiltà. Questo mutamento avvenne in particolare nel mondo latino europeo; in Inghilterra, ad esempio, non vi era mai stato alcun problema nei confronti del nobile che lavorava.
Tuttavia non bisogna pensare che questo cambiamento fu ben accetto da tutti: anche nel ‘600 molti continuarono a osteggiarlo in quanto principio. Lo Stato e il re furono due figure fondamentali nel cambiamento dell’aristocrazia, in maniera particolare in Francia. Quello del lavoro nobiliare fu argomento discusso largamente anche nel contesto letterario del tempo, e solo al termine del ‘600 sembra che il cambiamento fosse consolidato un po’ ovunque, sia a livello legale che culturale. I nobili iniziarono a possedere industrie, miniere, campi coltivati, a produrre oggetti e commerciare. Spesso le entrate erano diversificate, ma la terra rimaneva ancora l’entrata principale per le casse dell’aristocrazia. Iniziò a diffondersi tra i nuovi imprenditori-nobili anche l’interesse per l’edilizia in città. Sebbene il loro contributo all’economia nazionale[5], in termini quantitativi, fosse alle volte modesto, le loro attività erano spesso finanziariamente rischiose e: “… furono gli aristocratici a rischiare in imprese industriali e commerciali il loro denaro, in misura così notevole da mandare molti di loro in rovina, ma essi contribuirono anche a spianare la strada ai successivi investimenti di capitale operati da altre classi”[6].
Quello che emerge è dunque un contesto dove i nobili non erano più consumatori, ma produttori di ricchezze. A questa affermazione bisogna aggiungere le eccezioni del caso: in Italia, ad esempio, i pregiudizi verso le attività imprenditoriali nobili erano ancora ben radicate. Inoltre, ove era presente classe imprenditoriale già forte il fenomeno dell’imprenditoria nobile è decisamente meno acceso ed evidente. Infine, in alcune zone dell’Europa, soprattutto ad oriente, l’ingresso della nobiltà nel mondo economico arrestò la crescita della classe di mercanti, andando a distruggere interi settori sociali dedicati al commercio. In questi casi venne meno lo sviluppo della borghesia, portando alla decadenza di numerosi centri urbani e al declino delle aree attorno, soggette allo sviluppo del “capitalismo feudale”. Solo ove la borghesia era forte l’apporto dei nobili fu un fenomeno positivo, costruttivo e benefico per l’economia.

“Qualsiasi cosa, ma non povero!” – povertà e ricchezza tra i nobili
La nobiltà, nel periodo storico preso in considerazione, non era legata al sangue… ma alle ricchezze possedute. L’aspetto meritocratico di questo meccanismo era ben presente alla nobiltà più antica, che infatti malvedeva questo fenomeno, continuando a borbottare di un certo sangue nobile che scorreva nelle vene. Il fenomeno del nobile impoverito era ben diffuso, tanto che l’espressione “nobile ma povero” divenne in uso proprio nel XVII secolo[7].
Ma come evitavano i nobili di cadere nel vortice della povertà? Nel paragrafo precedente abbiamo osservato come la nobiltà praticava, anche con successo, varie attività imprenditoriali e capitalistiche, ma, di base, la forma di sostentamento più diffusa rimaneva il possedimento terriero. In occidente i nobili erano normalmente proprietari terrieri, in oriente produttori agricoli. Questo significa che nel primo caso affittavano i campi, nel secondo li coltivavano direttamente. Questa differenziazione era dovuta a una più fiorente economia monetaria dell’occidente, che permetteva l’utilizzo maggiore di denaro. Affittando le terre i nobili cominciarono a dedicarsi ad altre attività, traendo guadagno dalle cariche pubbliche e dalle pensioni. Tra queste la carica pubblica era certamente la più remunerativa, e in quanto tale riservata a pochi nobili veramente ricchi e potenti. La maggioranza rimaneva “povera di denaro, per quanto ricca di onore”[8]. Questa povertà decantata, tuttavia, non derivava dalla mancanza di privilegi o di occasioni per arricchirsi, bensì dallo stile di vita che andava mantenuto, il cosiddetto “vivere nobilmente”.
Questo aspetto era importante, perché permetteva di dimostrare la propria nobiltà, e, come confessa il duca spagnolo Béjar: “tutti credono che io sia ricco, e io non desidero che gli altri sappiano altrimenti perché non avrei più credito nei loro confronti se sapessero che sono povero”[9]. Lo sforzo di dimostrare la propria opulenza si rivelava spesso un suicidio economico, portando al cosiddetto “nobile ma povero”. Ma in cosa consisteva questo “vivere nobilmente”? L’ostentazione tramite certi standard di vita (banchetti, vestiti, gioco d’azzardo, caccia, castelli e case lussuose…), ma anche il possesso di uno smodato seguito di servitori, seguaci pronti a sostenere il nobile nei propri litigi con i rivali. Questo stuolo di persone divenne talmente problematico[10], che molti paesi legiferarono per limitarne il numero massimo, con risultati altalenanti. Alla luce di quanto detto il debito era un (mortale) compagno di vita del nobile seicentesco.
È facile osservare la nobiltà del XVII secolo e vedere una crisi. In effetti una moltitudine di fonti dell’epoca attesta questo fenomeno. Tuttavia, fu più che altro un passaggio, un ricambio: se un nobile cadeva in disgrazia, un “nuovo arricchito” prendeva il suo posto. La mobilità sociale fu dunque la protagonista del periodo, nel contesto preso in esame perlomeno. La borghesia solo in alcuni paesi ebbe la forza di prosciugare parte delle ricchezze della nobiltà, che rimase predominante nella maggioranza d’Europa. Anche ove la ricchezza nobiliare diminuì essi rimasero comunque elementi chiave nel potere dello stato, continuando ad esercitare la loro influenza[11].

La crisi politica dell’aristocrazia
Nel XVII secolo, con tutte le differenze del caso, la tendenza nei vari paesi europei era quella di un accentramento statale del potere. Questo colpì l’aristocrazia su più fronti: diminuì la loro rilevanza militare, la restrizione dalle alte cariche di governo e in generale colpì i privilegi tradizionali[12]. Non bisogna intendere questi cambiamenti come una volontà da parte dei reggenti di eliminare la borghesia: lo scopo principale era probabilmente quello di limitarne la sola influenza politica[13], data l’incapacità dimostrata di influire positivamente sul governo che i nobili, tra guerre intestine e litigi, avevano dimostrato ampiamente nel tempo[14].
Il processo di sminuimento della nobiltà non fu semplice né pacifico, anzi non mancarono rivolte e veri e propri scontri armati tra nobiltà e governo. A riprova di quanto detto in Spagna, dove i nobili mantenevano saldo il controllo sull’amministrazione, non avvennero rivolte del genere[15]. Dunque, fu crisi? Alla luce di quanto abbiamo appena letto si osserva come il termine crisi sia adatto per descrivere la nobiltà del ‘600 solo dal punto di vista politico, frangente nel quale avvenne una effettiva riduzione dell’influenza, con tutte le differenziazioni del caso. Dal punto di vista economico invece si parla di “contraddizione” e “cambiamento” più che di crisi.

Note al testo
[1] Kamen 1971, p.165
[2] Dal resoconto dei rappresentanti della città di Epernay del 1560. (Kamen 1971, p.167)
[3] Claude Haton ne parla raccontando nel 1578 degli atti realizzati da un gruppo di nobili nello Champagne. (Kamen 1971, p.168)
[4] Molti dei gruppi di banditi operanti in Castiglia ai tempi di Filippo IV erano direttamente controllate da nobili. (Kamen 1971, p.168)
[5] Da intendersi in senso lasco, non in definizione necessariamente contemporanea del termine.
[6] Kamen 1971, p.173
[7] Kamen 1971, p.177
[8] Richelieu (Kamen 1971, p.179)
[9] Kamen 1971, p.180
[10] In alcuni casi si arrivava ad aver 500-600 seguaci al proprio servizio.
[11] Kamen 1971, p.187
[12] La riduzione dei privilegi era limitata agli aspetti che fornivano indipendenza ai nobili: i duelli, le leggi suntuarie, la giurisdizione delle corti reali ecc.
[13] Precedentemente esercitata anche attraverso assemblee.
[14] Kamen 1971, p.203
[15] Kamen 1971, p.203