I metodi per conservare la carne al tempo dei romani erano diversi.
Se consideriamo il breve termine, era sufficiente lavarla e riporla in un ambiente fresco e al riparo dalla luce, talvolta ricoprendola con aceto e una mistura di spezie. Nelle regioni montane veniva conservata sotto la neve, mentre nelle regioni più miti, dove la temperatura non aiutava, veniva essiccata in superficie tramite affumicatura.
Appendendo la carne sopra il focolare e facendole assorbire il fumo del fuoco si praticava l’essiccazione, pratica già in uso dal II secolo a.C.. Un ulteriore pratica di conservazione era la salatura, utilizzata per vari tipi di carne oltre a quella suina. Nel suo De Agricoltura, Catone il Censore ci testimonia anche l’uso combinato di salatura e affumicatura.
Le carnaria erano apposite dispense in cui si stivava la carne:
- i tagli affumicati ed essiccati venivano appesi al soffitto per mezzo di ganci e tenuti al riparo dalla luce;
- i tagli salati venivano conservati all’interno di giare;
- i pasticci di carne venivano invece ricoperti di grasso animale o miele.
Nonostante la produzione locale di salsicce, i Romani importavano dalla Gallia e dall’Insubria un gran numero di salumi e prosciutti. Di questo ci testimonia Varrone nel suo De Re Rustica, di cui riportiamo un passo saliente:
“Dicono che la razza suina sia stata dalla natura per farne lauti banchetti e che perciò l’anima è stata data ai porci come fosse sale, perchè ne conservasse la carne. I Galli sono soliti farne dei grandi e ottimi salati. La prova che sono ottimi è che ogni anno s’importano a Roma dalla Gallia prosciutti comacini e cavarini e prosciutti disossati. Sulla quantità della carni porcine tagliate e salate in Gallia, Catone scrive così: <In Italia gli Insubri salano tre o quattro mila pezzi di carne suina, il maiale suole crescere a tale punto di grassezza che non si regge in piedi da se e non può camminare. Pertanto se uno lo vuole trasportare in qualche posto lo deve caricare su di un carro>.”
(Varr., R.R., 4, 10, 11)