Ma quando arriva la carne nelle cucine dell’Antica Roma? Solo in una fase successiva, individuabile con la tarda Repubblica e inizio dell’Impero. Difatti, la dieta romana, in epoca arcaica, era limitata a farinate di vari tipi, arricchite da verdure e prodotti caseari.
È indubbio che la carne, di qualsiasi tipo, fosse considerata un bene di lusso, accessibile solo alle classi più agiate. Ma le classi meno abbienti potevano goderne in occasione delle viscerationes, distribuzioni gratuite che i ricchi patrizi offrivano per celebrare alcune occasioni speciali: Svetonio ci testimonia ad esempio che Cesare fu molto generoso in occasione dei suoi cinque trionfi.
“Quanto al popolo fece distribuire non soltanto dieci moggi di frumento e altrettante libbre d’olio, ma anche trecento sesterzi per persona, che un tempo aveva promesso, e ne aggiunse altri cento per farsi perdonare il ritardo. […] A queste liberalità aggiunse una distribuzione di pasti e di carne e, dopo la vittoria in Spagna, di due pranzi, perchè la prima distribuzione gli era sembrata insufficiente e poco degna della sua generosità; quattro giorni dopo offrì un altro ricchissimo banchetto.”
(Svetonio – Vite dei Cesari – Libro I, XXXVIII)
Il consumo di carni aumentò considerevolmente in epoca imperiale: fu l’imperatore Aureliano, nel III secolo d.C., a regolarizzare e cadenzare queste distribuzioni di carne fino a che, due secoli dopo, alla plebe vennero addirittura assegnate 5 libbre di maiale a testa per 5 mesi l’anno.
Quali tipi di carne venivano consumati?
I bovini venivano mandati al macello solo in età avanzata, quando le carni erano coriacee. La carne bovina iniziò ad essere consumata solo dopo il II secolo a.C. e Varrone ci racconta nel suo De Re Rustica quali erano le norme da osservare per la macellazione di tale qualità di bestiame. Per i sacrifici potevano essere usati anche animali giovani e sani, che avevano ovviamente un costo maggiore. Tertulliano, più tardi, denuncerà il mal costume di portare in sacrificio animali mezzi morti e rognosi (Apologetico – XIV, 1), costume che già era noto ai tempi di Varrone. Occorrerà aspettare l’epoca imperiale per la libera macellazione della carne bovina: ma a quel momento i palati dei Romani erano abituati a carni più saporite. Il manzo è menzionato in una sola ricetta di Apicio (De Re Coquinaria – Libro VIII – 5, 2), mentre il vitello appare sia come pietanza dell’iconico banchetto di Trimalcione descritto da Petronio (Satyricon – LIX) sia in una lettera che Cicerone scrisse a Peto.
Agnello e capretto erano invece considerati vere e proprie leccornie: secondo quanto riportato dall’Editto di Diocleziano, il prezzo di questi due prodotti si equivaleva. Mentre sull’agnello non c’era traccia di divieti, la Legge Licinia vietava il consumo del capretto. Pare però che questo divieto non fosse osservato: Giovenale, Marziale e lo stesso Apicio ci testimoniano infatti il normale consumo di questa carne.
Il vero protagonista della scena culinaria era sicuramente il maiale. Nonostante fosse la carne più cara nel periodo tardoimperiale, secondo l’Editto di Diocleziano (IV, 43), il suo consumo era imparagonabile a qualsiasi altro animale. L’apprezzamento di questa carne nell’Antica Roma è testimoniato dal tenore delle fonti. Apicio gli dedica ben 23 ricette, Varrone sosteneva che il maiale era stato pensato dalla natura come pietanza delle feste (De Re Rustica – Libro II – 4, 10), Plinio il Vecchio elenca l’incredibile varietà di tagli e sapori che offriva questa bestia (Naturalis Historia – VIII, 209) mentre Columella si sofferma a descriverne i metodi di allevamento (De Re Rustica – Libro VII – 9, 11). Questa carne si prestava a numerosi derivati, quali prosciutti, salsicce e insaccati. Inoltre, del maiale si mangiava tutto: alle frattaglie Apicio dedica numerose ricette specifiche.
“Da nessun altro animale più abbondante quantità di ingordigia: quasi cinquanta sapori, mentre per gli altri uno solo.”
(Plinio il Vecchio – Naturalis Historia – VIII, 209)
Fra i volatili possono essere annoverati tordi e piccioni, ma anche fagiani, anatre e pavoni. Di recente scoperta, il Termopolio della Regio V di Pompei, ci restituisce conferme tangibili del consumo di anatre: difatti, sono stati trovati frammenti ossei di questo animale proprio all’interno di alcuni dolia del bancone.
Era molto in voga anche il consumo di animali esotici, quali cicogne, gru e fenicotteri, di cui veniva apprezzata in particolare la lingua. I ghiri venivano addirittura allevati in vere e proprie fattorie, ed era consuetudine trovarli sulle tavole delle classi più povere. Da ultimo, non possiamo dimenticare la selvaggina: venivano preparati piatti a base di cinghiale, lepre, oca, ma anche cervo, capriolo e daino. L’archeologia del cibo ci viene ancora una volta in aiuto: il ciclo decorativo commissionato da Q. Granius Vero nella Casa dei Cervi di Ercolano vede proprio come protagonista una selezione di selvaggina: cappone, lepre, pernice e tordi appaiono pronti per essere cucinati. Farcite o arrostite, le carni potevano essere usate anche crude per produrre salsicce e insaccati.
La carne secondo Apicio
Il noto gastronomo romano, nel suo De Re Coquinaria, dedica due libri alle carni: uno ai volatili e uno ai quadrupedi. La carne nell’Antica Roma era protagonista di piatti molto prelibati, cui Apicio dedica un libro a parte, Politeles, che illustra come cucinare tagli di particolare pregio, quali la poppa, il fegato e i prosciutti.
Di seguito riportiamo la struttura dei due libri dedicati interamente ai volatili e ai quadrupedi.
Tropetes (VI libro)
- Lo struzzo;
- La gru, l’anitra, la pernice, la tortora, il palombo, il colombo e gli altri volatili;
- La pernice, il francolino, la tortora lessi;
- I palombi, i colombi, i volatili ingrassati, il fenicottero;
- Le salse per i vari uccelli;
- Il fenicottero;
- L’oca;
- Il pollo.
Tetrapus (VIII libro)
- Il cinghiale;
- Il cervo;
- Il camoscio;
- Il monone selvatico;
- Il manzo e la vitella;
- Il capretto o l’agnello;
- Il maialino;
- La lepre;
- Il ghiro.